Sul volto si trasferiscono tanto le gioie quanto le sofferenze. Entrambe devono trovare posto.
Io amo l’ombra così come amo la luce. Ambedue sono necessarie perché un volto possa essere bello. (F. Nietzsche)
Di Emanuele Casale
La gioia piena contempla e abbraccia, paradossalmente, la sofferenza. Non si può gioire senza prima un esser-ci stato con la sofferenza, senza la sua dimensione.
Vogliamo spesso essere persone scontate e piatte con un sorriso idiota stampato in faccia. Una faccia sempre uguale e che non cambia mai. Facce nelle quali non vi è traccia di una passione o di un fuoco che da dentro ci brucia e ci alimenta; è questa l’era dei sorrisi falsi, facili, da auto-fotografarsi, dei selfie idioti, quei sorrisi piatti immortalati in una foto, ma che sono programmati dall’unico intento di voler “uscire bene in foto”, come se sappiamo godere del sorriso solo in tale dimensione, ovvero una dimensione non spontanea e molto fintamente “sociale”.
Se amo una cosa della fotografia spontanea è proprio quella capacità di poter immortalare, all’improvviso, un sorriso, due sorrisi che si incrociano nel dialogo tra due persone che non sanno di essere nel mirino di un obiettivo: qui si immortala un sorriso che è eterno perché spontaneo.
Si ha paura cosi tanto di accettare la sofferenza che ci abita, che questa inevitabilmente si raddoppia e si trasferisce sul volto in maniera però trasfigurata, come se qualcosa dentro ci urlasse che sta soffrendo, e l’unica speranza che ha per palesarsi è facendosi fenomeno, mostrandosi in viso in malo modo, penetrando in ogni singolo sprazzo di falsi sorrisi e attraverso ogni maschera che usiamo.
Tutt’altra cosa è quella sofferenza che abbracciamo, che accettiamo, a cui diamo un dignitoso posto nella vita, riconoscendola in noi cosi come nel nostro prossimo, e che cosi facendo imprime i suoi segni sul nostro viso, ma stavolta come a dire “Eccomi, ho vissuto anch’io!”.
E allora in questa accettazione può nascere la vera gioia, quella che include e che abbraccia la sofferenza che abita ogni animo umano. Tanto più si gioisce quanto più l’individuo crea uno spazio dove situare – senza cacciarla – quel grumo di sofferenza di cui ogni vita è costellata.
La sofferenza interiore che abita ognuno di noi si trasforma in bellezza nel momento in cui le diamo il posto che le spetta e le diamo senso.
Nelle persone in cui la sofferenza è stata accettata, è stata riconosciuta, guardata, conosciuta, possiamo sempre notare che ciò che da spessore ai loro volti vissuti, è proprio questa armonia che si viene a creare tra i segni della sofferenza miscelati a quelli della gioia: il tutto si palesa sul volto in una maniera tale da dare spessore, carattere a quel volto.
Perché è veramente vita solo quella vita che esplora e viaggia in tutte le dimensioni dell’animo, nella sua completezza. Non c’è cosa più ridicola e deviante che sforzarsi a sopravvivere come esseri umani a una o due facce solamente.
Un sorriso non dura che un istante,
ma nel ricordo può essere eterno.
(Johann Christoph Friedrich von Schiller)
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Ogni emozione, per essere così definita, necessita di toni accesi. Massima luce, massima oscurità. Dove regna l’Intenso, ci deve essere la gioia e il contrario della gioia: l’una definisce l’altro, e viceversa.
L’ha ribloggato su SOPRA LE MARGHERIGHEe ha commentato:
Sofferenza e Gioia.
“Si ha paura cosi tanto di accettare la sofferenza che ci abita che questa inevitabilmente si raddoppia e si trasferisce sul volto in maniera però trasfigurata, come se qualcosa dentro ci urlasse che sta soffrendo e l’unica speranza che ha per palesarsi è facendosi fenomeno, mostrandosi in viso in malo modo, penetrando in ogni singolo sprazzo di falsi sorrisi e attraverso ogni maschera che useremo. Tutt’altra cosa è quella sofferenza che abbracciamo, riconoscendola in noi cosi come nel nostro prossimo, e che cosi facendo, imprime i suoi segni sul nostro viso ma stavolta come a dire “Eccomi, ho vissuto anch’io”.”