
Una poesia di Giancarlo Fattori
«Vieni. Tendi le tue ali d’albatro,
ascolta, nel vuoto che m’è di fronte:
al lamento sei sordo, al baratro;
profonda risplende una notte d’acrilico,
vapore informe di nebbia raggiante,
la tua mano un tumulo magico, arcaico.
Scompare il fossato nel volto di pietra,
si dissolvono labbra dal sole scolpite,
già sciolte nel vento, tinte sulla finestra;
un buco rimane, tra l’anima e il pianto,
tra semi e su terre che il tempo ha scalfite,
e che musica ha acceso d’ogni strumento.
Gli occhi tuoi eriche, selvagge tra i sassi,
lontane dal fuoco e immense nel vento,
forgiando parole con sguardi dismessi;
così io scrivo suffragi, così invoco lamenti,
così evoco spettri per farmi amico il tempo:
per placare il dolore invento torridi unguenti.
Cammina, amico, sulla mia palafitta,
oh maestro d’armi, senza più guerra:
nelle nubi sei come una guglia che svetta,
o come un’ombra sui muri di Hiroshima
mi racconti i tuoi sensi tra le piante di serra,
e con le dita accarezzi questo abisso dell’anima.»
(Giancarlo Fattori)
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