
Carl Gustav Jung e la sua torre a Bollingen
«A Bollingen mi trovo nella mia più vera natura, in ciò che esprime profondamente me stesso. Sono, per così dire, l’«antichissimo figlio della madre». (Jung)
Introduzione (di Emanuele Casale)
Oltre la sua bellissima casa familiare a Kusnacht, sempre sul lago di Zurigo, Jung costruì questa bellissima torre in pietra, con l’aiuto di operai, alcuni dei quali italiani.
È tuttora un luogo molto particolare in termini di energia psichica. È ovviamente proprietà privata, come lo è anche la casa, seppure molti di voi che seguono il Jung Italia già sono a conoscenza della fortuna che ho avuto potendo entrare sia nella torre che nella casa privata, conoscendo così anche due persone bellissime: due suoi nipoti ancora in vita.
Troverai qualche mia foto del luogo sparsa qui nel post, continuando a leggere…

Jung andava spesso alla torre durante il fine settimana, come per “ricoverarsi dalla futilità delle parole” (come lui stesso scrive) o quando aveva bisogno di un periodo più intenso di solitudine creativa.
In questa torre infatti Jung mise su carta molte delle sue intuizioni più geniali che raccoglieva durante la sua esperienza clinica e analitica, di vita.
Non di rado ospitava qui anche alcune delle sue più strette collaboratrici, come la Marie Louise von Franz (a cui consigliò di costruirsi una torre tutta sua, ma diversa…e lo fece!), Barbara Hannah, Aniella Jaffé, nonché la moglie, i figli, Toni Wolff e qualche amico e conoscente più stretto…
Lascio ora spazio alle stesse parole di Jung, che qui ci parla di questo luogo particolare, del suo significato.
I brani che seguiranno sono tratti dall’autobiografia di Jung (che ti consiglio assolutamente di leggere se non lo hai ancora fatto).
Ora partiamo, e scopriamo insieme un po’ questo magico luogo tanto intimo e caro a Jung…

La torre di Bollingen
Mi osservo nel silenzio di Bollingen, con l’esperienza di quasi otto decenni, e devo ammettere che non ho trovato alcuna risposta chiara a me stesso. Sono in dubbio su di me più che mai, tanto più quanto più cerco di dire qualcosa di definitivo (…). (Carl Gustav Jung – Lettere)
Gradualmente , attraverso il mio lavoro scientifico, potei dare alle mie fantasie e ai contenuti dell’inconscio una solida base.
Le parole e la carta, comunque, non mi davano l’impressione di essere abbastanza concrete; avevo bisogno di qualcosa di più.
Dovevo riuscire a dare una qualche rappresentazione in pietra dei miei più interni pensieri e del mio sapere. O, per dirla diversamente, dovevo fare una professione di fede in pietra.
Fu questo l’inizio della “Torre”, la casa che mi costruii a Bollingen. Potrà sembrare un’idea assurda, ma io l’ho fatto, e rappresentò per me non solo uno straordinario appagamento ma anche la realizzazione di un significato.
(La Torre a Bollingen non era per Jung soltanto una casa per le vacanze, ma vi trascorreva circa la metà dell’anno, lavorando e riposando. “Senza la mia terra la mia opera non sarebbe nata”. Fino alla più tarda vecchiaia Jung trovò distensione nello spaccare la legna, nel vangare, piantare e far la raccolta. Da giovane era appassionato per la barca a vela e per tutti gli sport acquatici.)

Fin dal principio tenni per fermo che avrei costruito vicino all’acqua. Ero sempre stato particolarmente attratto dall’incantevole scenario della parte superiore del lago di Zurigo, e così nel 1922 acquistai il terreno a Bollingen.
Dapprima non progettai una casa vera e propria, ma solo una specie di dimora primitiva, a un solo piano.
Doveva essere una costruzione rotonda, con un focolare al centro e cuccette lungo le pareti. Più o meno avevo in mente una capanna africana, dove il fuoco, circondato da pochi sassi, arde nel mezzo, e tutta la vita della famiglia si svolge intorno a questo centro.
Le capanne primitive realizzano un’idea di totalità, di unità familiare, alla quale partecipa anche ogni genere di animali domestici. Volevo costruire qualcosa di simile: una dimora che corrispondesse ai sentimenti originari dell’uomo.

Doveva dare la sensazione di essere al riparo, non solo in senso fisico, ma anche in quello spirituale. Ma già nella prima fase di costruzione modificai il progetto, perché mi parve troppo primitivo.
Mi resi conto che dovevo costruire una vera casa a due piani, e non una semplice capanna, accoccolata, per così dire, al suolo.
Così nel 1923 sorse il primo edificio circolare, e quando fu completato vidi che era una vera e propria torre.
Fin dal principio in questa torre provai un intenso senso di riposo e di ristoro. Rappresentava per me il focolare materno.
Presto però mi resi conto che non avevo ancora espresso tutto ciò che volevo dire, che ancora mancava qualcosa. Così, quattro anni dopo, nel 1927, feci aggiungere la costruzione centrale, con una dipendenza a forma di torre.

[…] Dopo la morte di mia moglie nel 1955, sentii l’intima obbligazione di diventare ciò che sono. Per esprimermi col linguaggio della casa di Bollingen, mi resi conto a un tratto che la piccola sezione centrale, così acquattata, così nascosta fra le due torri, rappresentava me stesso o il mio io.
Perciò, in quell’anno stesso, aggiunsi a questa sezione un altro piano. Prima non avrei potuto farlo; l’avrei considerato una presuntuosa ed enfatica affermazione di me stesso; adesso invece rappresentava la superiorità della coscienza raggiunta con la vecchiaia.
Con ciò, a un anno dalla morte di mia moglie, l’edificio era compiuto. Avevo cominciato la prima torre nel 1923, due mesi dopo la morte di mia madre. Queste date hanno un senso, perché, come vedremo, la Torre è legata ai morti.

Fin dal principio sentii la Torre come un luogo, in un certo senso, di maturazione, un grembo materno o una figura materna nella quale potessi diventare ciò che fui, sono e sarò. Mi dava la sensazione di essere rinato nella pietra.
Mi appariva come un’attuazione di ciò che prima avevo solo intuito e una rappresentazione dell’individuazione, un monumento aere perennius. Questo ha avuto un effetto benefico su di me, come una accettazione di ciò che sono.
Naturalmente durante i lavori di costruzione non feci mai queste considerazioni; avevo costruito la casa un po’ per volta, seguendo sempre le concrete esigenze del momento: potrei anche dire di averla costruita in una specie di sogno.
Solo in seguito vidi che cosa era sorto e che era riuscita una figura significativa: un simbolo della totalità psichica. Si era sviluppato come se un vecchio seme fosse germogliato.

A Bollingen mi trovo nella mia più vera natura, in ciò che esprime profondamente me stesso. Sono, per così dire, l’«antichissimo figlio della madre».
È così che si esprime, molto saggiamente, l’alchimia, poiché il «vecchio uomo», l’«antichissimo» – che io avevo sperimentato da bambino – è la personalità n.2 che è sempre stata e sempre sarà: esiste al di fuori del tempo, è figlia del materno inconscio. Nelle mie fantasie l’antichissimo aveva preso la forma di Filemone; ed a Bollingen egli vive.
A volte mi sento come se mi espandessi nel paesaggio e all’interno delle cose, e vivessi in ogni albero, nello sciacquio delle onde, nelle nuvole e negli animali, che vanno e vengono, nelle cose. Non vi è nulla nella Torre che non sia divenuto e cresciuto nel corso dei decenni, nulla a cui non mi senta legato.
Tutto vi ha la sua storia, e la mia; vi è spazio per l’infinito regno sotterraneo della psiche.
Ho rinunciato alla corrente elettrica: io stesso accendo il focolare e la stufa, e a sera accendo le vecchie lampade. Non vi è acqua corrente, e pompo l’acqua da un pozzo; spacco la legna, e cucino il cibo.
Questi atti semplici rendono l’uomo semplice: e quanto è difficile essere semplici.

A Bollingen il silenzio mi circonda quasi sensibilmente, e vivo «in modest harmony with nature».
Si presentano pensieri che risalgono indietro nei secoli, e al tempo stesso anticipano un lontano futuro; si placa il tormento della creazione: la creatività e il gioco stanno l’uno accanto all’altro.
Nel 1950 eressi una specie di monumento di pietra per esprimere ciò che la Torre significa per me. […] Mi venne in mente, anzitutto, un verso latino dell’alchimista Arnaldo di Villanova (morto nel 1313).
Lo scolpii nella pietra. Tradotto suona così:
Qui sta la comune pietra
Il cui prezzo è assai modesto.
Quanto più è disprezzata dagli stolti,
tanto più è amata dai saggi!
Questi versi si riferiscono alla pietra degli alchimisti, il lapis, che gli ignoranti disprezzano e rifiutano.

Presto avvenne un altro fatto. Sulla faccia frontale, nella struttura naturale della pietra, vidi un piccolo cerchio, una specie di occhio che mi guardava. Lo scolpii nella pietra, e nel centro vi feci un piccolo homunculus.
È la pupattola, che corrisponde alla pupilla dell’occhio, una specie di Cabiro, o il Telesforo di Esculapio.
È avvolto in un mantello col cappuccio e porta una lanterna, come si vede in diverse riproduzioni antiche.
E allo stesso tempo è anche uno che indica il cammino. Gli dedicai alcune parole che mi erano venute in mente durante il lavoro. L’iscrizione è greca, e questa è la traduzione:
Il tempo è un fanciullo – che gioca a dadi – il regno del fanciullo. Questi è Telesforo, che vaga per le oscure regioni del cosmo, e dal profondo risplende come una stella. Indica la via alle porte del sole e alla terra dei sogni.

[…] Sulla terza faccia, quella prospicente il lago, lasciai, per così dire, che fosse la pietra stessa a parlare, in una iscrizione latina. Si tratta più o meno di citazioni da testi di alchimia. Eccone la traduzione:
Sono un orfano, solo; eppure mi trovo dovunque.
Sono Uno, ma ho di fronte il mio opposto. Sono insieme giovane e vecchio.
Non ho conosciuto né padre né madre, perché hanno dovuto trarmi dal profondo come un pesce. O perché sono caduto dal cielo come una pietra bianca.
Vago per boschi e monto, ma sono nascosto nell’intimo dell’uomo.
Per tutti sono mortale, eppure il mutare dei tempi non mi tocca
Alla fine, sotto il detto di Arnaldo di Villanova, scrissi in latino le parole:
“A ricordo del suo settantacinquesimo compleanno, C.G.Jung fece e pose per gratitudine nell’anno 1950”.
Quando la pietra fu finita, andai spesso a rivederla, sorpreso, chiedendomi che cosa ci fosse dietro il mio impulso di scolpirla.
La pietra sta all’esterno della Torre, e ne è una spiegazione. È una manifestazione dell’occupante, che rimane incomprensibile agli altri.
Sapete che cosa volevo scolpire sulla faccia posteriore della pietra?
Le cri de Merlin! Perché ciò che la pietra esprimeva mi ricordava la vita di merlino nella foresta, dopo che era scomparso dal mondo. Gli uomini ancora sentono le sue grida, così afferma la leggenda, ma non possono capirle o interpretarle. […]

Nella Torre, a Bollingen, si vive contemporaneamente in molti secoli. Essa vivrà oltre la mia morte, e con la sua posizione e il suo stile indicherà un lontano passato. C’è ben poco in essa che ricordi il presente.
Se un uomo del secolo XVI vi andasse ad abitare vi troverebbe di nuovo solo i fiammiferi e la lampada a petrolio; per il resto, si troverebbe completamente a suo agio.
Non vi è nulla che possa disturbare i morti, né la luce elettrica, né il telefono.
Inoltre le anime dei miei antenati sono confortate dall’atmosfera della casa, dal momento che io rispondo per loro alle domande che le loro vite lasciarono senza risposta, bene o male, come mi riesce. Ho persino dipinto sui muri le loro figure.
È come se una silenziosa e più grande famiglia, che si stende nei secoli, popolasse la casa. In essa io vivo nella mia “seconda personalità”, e vedo la vita che diviene e svanisce a grandi tratti.»
(Brano tratto da “Ricordi, Sogni, Riflessioni”, autobiografia di C.G.Jung)
FINE.
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Ho provato ammirazione diversità coinvolgente non so spesso cosa vuol dire ma mi suscita sorriso affetto.
[…] Anima sono in relazione con la Terra (Toro – sensazioni), Jung ha costruito personalmente la Torre di Bollingen, e sono in sintonia con l’Acqua (Cancro e Scorpione – sentimento). Jung ha lavorato tantissimo […]
Ognuno di noi ha una propria Bollingen.
A volte è un luogo reale,
Da recuperare nella bruma di crono,
Come fece Proust per migliaia di pagine,
Una antica dimora sepolta nell’edera,
Con una fontana davanti senza più acqua,
Dove i pallidi spettri di tre pesci rossi
A loro volta sognano l’eco di risa lontane.
(Per me lo fu per molto tempo la casa dei nonni,
Prima che cessasse di rappresentare quello che fu,
E a un certo punto non fu più).
Ma spesso Bollingen è un luogo interiore,
Più che un sogno, un desiderio struggente
Di qualcosa che ci sfugge, ma sempre abbiamo amato,
Proprio perché non esiste.
Io non ho torri di pietra,
Nè iscrizioni incise sulla facciata.
Non ci sono nemmeno mura e soffitti.
C’è questo terrazzo che guarda uno spazio,
Che può essere fitto bosco autunnale,
Oppure una spiaggia deserta e rosa,
Con un mare colore del vino che la lecca assorto,
E sul terrazzo c’è una sdraio color panna,
E accanto un tavolino con un calice di vino bianco,
E ovunque, nel cielo incolore, sui rami arancioni,
Nell’arco della porta alle mie spalle,
La tua presenza sottile, insistente,
Che non so mai se sia gioia intensa o intenso dolore,
Perché a certi livelli di intensità
Non esiste più distinzione precisa,
Ma sicuramente è un marchio a fuoco sul mio cuore,
Un marchio di appartenenza, come si fa al bestiame.
Chi ama tanto è sempre un animale,
Nel senso più profondo del termine,
E non può che appartenere a qualcuno.
La mia Bollingen è percorsa spesso da una musica lieve,
Rintocchi di campane dietro colline remote,
O le corde di un’arpa celtica accarezzate da bianche dita
Leggere,
Ma più spesso dal canto del vento,
E il gocciolio da qualche parte di un rubinetto che perde,
O forse di un occhio che sta lacrimando
Con discrezione.
La mia Bollingen è ricordo, invenzione, sogno,
È coscienza ed incoscienza,
È dove riposo e attendo di tornare
Quando non avrò più altri luoghi dove andare,
Quando potrò sorseggiare quel vino bianco,
Cercando con le labbra il sapore lasciate dalle tue
Sul bordo del cristallo.
Poi verrà la notte, e con essa la luna,
Ed anche lì so che vedrò il riflesso del tuo volto,
Prima che le nuvole nere ricoprano tutto
Sotto il drappo nero di velluto della pace
Della fine che precede ogni nuovo inizio,
La sparizione lenta e serena anche di Bollingen.