
Quando noi conosciamo e “facciamo coscienza” creiamo anche Ombre, tenebre. Può nascere dalle tenebre dell’inconscio e dall’ombra, una luce? Qualcuno diceva che solo la luce che nasce dalle tenebre è apportatrice di saggezza. Quale rapporto c’è tra Luce ed Ombra in psicologia? A seguire un mio articolo.
Vi è una sola certezza: nulla può spegnere la luce interiore. (Carl Gustav Jung, lettera a Mary Mellon, 19 giugno, 1940)

📖 Nonostante il titolo di questo libro che può sembrare in stile “new age”, decisi di comprarlo e di leggerlo, e ne sono rimasto assolutamente soddisfatto. L’autrice, psicoterapeuta, cita spesso Jung conoscendone il pensiero. I rimandi all’antica saggezza sono vari.
La luce dell’Inconscio. La luce dell’Ombra.
di Emanuele Casale
«(…) Allora capii che nell’anima, fin dalle sue prime origini, c’è stato un anelito alla luce e un impulso inestinguibile ad uscire dalla primitiva oscurità. (…) L’anelito alla luce è l’anelito alla coscienza.» (C.G. Jung – Ricordi, Sogni, Riflessioni)
«In mezzo al sole è la luce, in mezzo alla luce è la verità, in mezzo alla verità è l’Essere imperituro» (Estratto dagli antichi Veda)
«La materia è luce congelata» (David Bohm)

Luce che ci è familiare. Luce della coscienza.
Non raggiungeremo mai la nostra totalità, se non ci assumiamo l’oscurità che è in noi, poiché non c’è corpo che, nella sua totalità, non proietti un’ombra, e questo non in virtù di certi motivi ragionevoli, bensì perché è sempre stato così e perché tale è il mondo. (Jung, 1934)
Sulla natura della luce abbiamo materiale letterario infinito che percorre indietro non i secoli, bensì i millenni. Taoismo, Induismo, Giainismo, Kabbalah, Cristianesimo, Gnosticismo, Alchimia, filoni di meditazione…l’elenco sarebbe molto più lungo: in ogni antica sapienza e religione del mondo troviamo discorsi attorno alla natura della luce, fino ad arrivare ai tempi moderni dove oltre le antiche tradizioni abbiamo accumulato una conoscenza anche scientifica ed empirica attorno alla luce.
Ma anche nel campo della fisica, come sappiamo, la costituzione della luce desta le più grandi perplessità a seguito della sua natura duale di onda/particella scoperta in seguito alle interpretazioni dell’[simple_tooltip content=’Riferimento al noto esperimento chiamato anche della doppia fenditura.‘] esperimento di Young*[/simple_tooltip].
Oggi sappiamo, senza però comprenderlo fino in fondo, che la luce – composta da particelle chiamate fotoni – è sia corpuscolare che ondulatoria, ovvero che si può comportare – a seconda dei casi e dell’osservatore – sia come una particella sia come un’onda. È questo uno dei tanti apparenti paradossi del mondo della fisica quantistica, gli stessi paradossi che nascono tra coscienza e inconscio quando ci addentriamo nel mondo della psiche, gli stessi paradossi che Wolfgang Pauli e Jung iniziarono ad intuire essere presenti così come nel mondo subatomico anche nel mondo psichico.

In psicologia – l’ambito d’interesse primario in questo contesto – sappiamo bene che la Luce è da sempre stata un simbolo della coscienza. Le comparazioni letterarie, religiose, antropologiche, mitologiche e psicologiche ci dimostrano sempre questo costante abbinamento luce-coscienza.
Come ci ricorda Jung la “luce è l’equivalente simbolico della coscienza, e la natura della coscienza viene espressa da analogie con la luce” – e ancora – “le metafore da noi utilizzate per spiegare l’essenza della coscienza sono analogie tratte dal mondo della luce e della visione” [simple_tooltip content=’C.G. Jung. Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario tenuto nel 1934-39. Vol. 4. Torino: Bollati Boringhieri, 2013′](**cit.)[/simple_tooltip].
Se non ci fosse stata la luce non avremmo mai potuto conoscere alcunché – almeno per quanto riguarda il mondo materiale, il mondo della coscienza, il mondo dei sensi, il mondo lì fuori.
La luce veicola l’informazione, la luce rischiara l’oscurità, la luce illumina l’ignoto, e che questo illuminare sia prodotto da un uomo, un dio, una torcia o una lampadina, l’effetto è sempre il medesimo: il poter guardare per vedere. Possiamo guardare nel buio senza poter vedere nulla, a meno che non ci siano delle luci. La luce è quindi strettamente legata alla conoscenza.
Ma abbiamo altri tipi di [simple_tooltip content=’Termine usato da alcuni studiosi di storia delle religioni per indicare il nucleo originario di un mito, di cui i singoli miti tradizionali sono sviluppi o varianti.’]mitologemi*[/simple_tooltip] legati alla luce, come primo tra tutti quello della luce identificata con la divinità, o ancora la luce associata all’Amore (“Ed io non sono che il lato oscuro di una vita in cui la luce è coscienza del mio amore”, Joe Bousquet, 1941, p.80), o quello che associa la luce al principio femminile così come lo troviamo – tra i molti “luoghi” – nel [simple_tooltip content=’è una delle quattro suddivisioni canoniche dei Veda.’]Rg-Veda*[/simple_tooltip].

La luce associata al principio femminile è però una luce diversa dalla luce diurna, la luce del sole, del principio maschile dunque, essa è invece associata ad una luce notturna, lunare.
Come infatti sottolinea Arturo Schwarz nel suo bellissimo articolo La luce dell’Amore:
Anche quando il principio femminile è associato alla notte — il che è altrettanto frequente —, non è all’oscurità della notte ma alla luce del cielo stellato notturno che il femminile è spesso omologato. Così la dea vedica della notte, Ratri, è colei che «con la sua luce scaccia le tenebre.
Potremmo legittimamente dunque chiederci: esistono vari tipi di luce?
Potremmo fare la stessa domanda partendo anche da un dato abbastanza immediato: ovvero, siccome la Luce è associata – archetipicamente – alla Coscienza, e se esistono diversi tipi/livelli/qualità di coscienza, possono esistere in modo analogo anche vari tipi di luce?
E aggiungerei anche – per anticipare il tema imminente – : possiamo parlare di luce senza parlare di ombra?
La luce dell’ombra. L’ombra della luce. Per una coscienza simbolica.
Non c’è Luce se non quella che viene dalle tenebre. (Zohar)
«La terra è posta in mezzo tra luce e tenebre.» (C.G. Jung – Psicologia e Alchimia)
«Trarre il raggio dall’ombra, o gran lavoro!» (Ermete Trismegisto)
«In principio c’era l’Ombra» (Genesi)
«La luce dorata della fiamma di una candela siede sul trono della sua luce scura che aderisce allo stoppino.» (Zohar)
Possono esistere vari tipi di luce, così come possono esistere vari tipi di coscienza, i cosiddetti stati alterati di coscienza, o semplicemente i diversi modi di sperimentare la coscienza, alcuni dei quali già conosciuti grazie agli studi di neuropsicologia, quelli sull’ipnosi, sulle droghe, o anche gli studi di psicologia transpersonale iniziati da Stanislav Grof, ecc. ecc.
Ritorneremo su questo punto fra poco, prima di allora è necessario aprire questa importante parentesi sull’ombra, sull’oscurità, su questi due contrari (luce e oscurità), per poter alla fine unire il discorso e vedere come l’ombra è un tutt’uno con la coscienza, col fare sguardo, fare luce. Mi si perdoni se qui userò in maniera interscambiabile – per comodità – i termini oscurità e ombra, pur essendoci – sostanzialmente – una differenza tra i due.

Dice il filosofo e ricercatore Roberto Casati che:
“ […] in realtà senza ombra la conoscenza sarebbe bloccata e impedita. È attraverso l’ombra che noi riusciamo a ricostruire la forma delle cose, grazie anche all’oscuro, grazie anche alla presenza delle ombre che proiettano al suolo e che permettono di individuare la distanza delle cose dal suolo.
Nell’ombra si sono sempre nascoste tutte le metafore più inquietanti che riguardano la conoscenza (nel mondo occidentale almeno), ma si è dimenticato che l’Ombra è un aiuto assolutamente indispensabile per ricostruire le forme e le dimensioni degli oggetti. Un mondo senza ombra, un mondo dove ci sarebbe soltanto luce, sarebbe un mondo illeggibile per noi.
Il nostro sistema visivo scommette sul fatto che noi proiettiamo sempre un’ombra, che le cose intorno a noi proiettano sempre un’ombra e cerca di registrare la presenza di ombre nella scena. […]
Si cerca sempre qualcosa all’interno di una zona che è ombrosa, una zona in cui non ci si vede chiaro, in cui bisogna fare una distinzione tra gli aspetti chiari e meno chiari, in cui c’è sempre qualcosa di sporco. Quindi la purezza e la ricerca non sono mai associati. I ricercatori hanno sempre le mani in pasta e toccano sempre cose che non sono mai nette e pulite”.

Ad un livello sia fisico, che psicologico e filosofico, non possiamo conoscere la luce senza che ci sia qualcosa da illuminare, senza che ci sia un’oscurità, un’ombra.
La luce ha senso – diceva Jung – solo in relazione all’ombra, solo se illumina l’oscurità.
Non potremmo in effetti neanche vedere una luce se attorno non fossimo circondati da qualcosa che fa da contrasto alla luce stessa, ovvero dal buio, o quanto meno qualcosa tanto sostanziale così come lo è la luce ma dal suo versante opposto. È questo un tema fortemente archetipico.
Dall’era dei tempi c’è sempre stata lotta tra luce e ombra, bene e male, e a tal proposito potremmo tirare in ballo la spinosa questione – tanto cara a Jung e agli gnostici – della privatio boni, ovvero della concezione – a mio avviso molto infantile – del male visto come una mera assenza del bene, analogamente potremmo concepire l’ombra come una mera assenza di luce, ma credo che nel fare ciò saremmo in errore.
Fu Jung a ricordare, sulla scia delle antiche tradizioni, che il concetto di male dovrebbe essere considerato alla stessa stregua del bene, ovvero come un’essenza ontologicamente reale così come il bene, che agisce così come il bene e che ha le sue leggi, per così dire.
La sua diatriba a tal riguardo, con il teologo Martin Buber, divenne nota ai teologi e agli studiosi delle religioni del tempo, e rilascia le sue eco ancora tutt’oggi.

Che forse l’oscurità, o l’ombra, sia anch’essa una dimensione della realtà data non semplicemente dall’assenza di luce, ma con un suo statuto ontologico effettivo e di qualità diversa dalla luce?
L’oriente, nella sua millenaria cultura, ha un simbolo per eccellenza per raffigurare questo fatto psicologico, ovvero l’unione degli opposti, di maschile e femminile, di luce e ombra, di bene e male. Tale simbolo è il noto taijitu, legato al Taoismo, più conosciuto come quel simbolo che raffigura l’unione del principio yin con quello yang. Il taijitu è un simbolo di significato cosmogonico, filosofico e psicologico enorme.
Esso ci dimostra la danza degli opposti e di come in uno dei due elementi sia presente e agente l’elemento opposto, di come nella Luce sia presente l’Oscurità (l’ombra della luce), e nell’Oscurità la Luce (la luce dell’ombra), di come dal bene possa scaturire il male, e di come dal male possa scaturire il bene. Tutto ciò ha delle conseguenze enormi intuibili sul piano psicologico, pratico, clinico e psicoterapico.

Questa riflessione può sembrare molto scontata ad un livello superficiale del discorso, ed inoltre non posso addentrarmi ulteriormente sui tecnicismi di tale simbolo e della sua cultura per ovvie questioni di spazio e tecniche. Mi limito soltanto a sottolineare di come in Occidente tale simbolo è sempre stato ben poco compreso e soprattutto sottovalutato in un suo aspetto che invece in Oriente è di primaria importanza: sto parlando del punto del simbolo dove i contrari entrano in relazione, si integrano.
È in quella zona di confine, liminale, che è nascosto – per così dire – il significato più nucleare – ma mai esauribile – di questo simbolo, è questa zona di confine, di coniunctio, che interessa al nostro discorso qui. In questa una zona di confine dove due elementi sembrano integrarsi, toccarsi, sfiorarsi, avvicinarsi, comunicare, non vi è mai una netta distinzione tra i due termini, qui non è più possibile distinguere un nero da un bianco, la luce netta e distinta dall’oscurità più cupa e buia.
Vi è in questa zona un offuscamento, una sorta di partecipation mystique tra gli elementi, perché vi è non solo una commistione degli opposti, ma anche un’aggiunta di un tertium, di un elemento prodotto dalla sintesi dei due. Su questa zona liminale e di commistione degli opposti torneremo a breve.

La coscienza e il fare luce che distrugge.
Introduciamo ora qui – per ricollegarci a quanto detto prima – il tema del fare coscienza, del fare luce, e di come spesso il fare luce può non essere inteso in accezione positiva, bensì negativa, distruttiva.
Cosa significa? Che forse essere coscienti, fare luce, illuminare, può essere in qualche modo nocivo se fatto in un determinato modo, con determinate tempistiche? Ma certo. E questo la clinica e l’ambito psicoterapico lo sa bene. Un Io non pronto a fare luce su determinate zone d’ombra della propria personalità rischia di bruciarsi per la troppa luce, per il troppo aver fatto coscienza in maniera impropria.
Ce lo spiega più propriamente Marie Louise von Franz, in questo passo tratto dal saggio Le fiabe del lieto fine:
« […] In genere si pensa alla luce a qualcosa di esclusivamente positivo. La luce è simbolo di consapevolezza: si dice di “essere illuminati” e che la “luce della consapevolezza ha colpito qualcuno”. Fra due innamorati, esiste una sorta di unione mistica che è alimentata dal mistero; è un’unione che avviene durante la notte, senza essere sfiorata dalla luce della coscienza; nel momento in cui viene colpita della luce, c’è separazione e sofferenza, e forse anche l’annientamento della possibilità di redenzione (…).
Questo sembrerebbe sottintendere il potere distruttivo della coscienza: per certi contenuti dell’inconscio, la luce della coscienza non ha una funzione positiva bensì distruttiva. È qualcosa che tutti gli analisti e i futuri analisti dovrebbero comprendere appieno. È un motivo archetipico, quindi molto frequente e importante. La consapevolezza è distruttiva e provoca la separazione nell’ambito di una certa sfera, chiaramente identificata con quella dell’Eros. È qui che la luce della coscienza può avere un effetto totalmente distruttivo (…).
Naturalmente, l’intervento della luce è legato al fatto che essa è stata introdotta prematuramente. (…) Se improvvisamente si sposta una pianta e la si espone alla luce del sole, essa avrà un trauma; proprio come una prolungata esposizione ai raggi solari può essere molto dannosa. (…) Se l’intelletto non dice “mi sembra così”, ma è accompagnato da quel sottile atteggiamento psicologico che dice “io so che si tratta di questo e di nient’altro”, allora questa sfumatura introduce un elemento diabolico che distrugge ogni cosa, specie ciò che sta crescendo.»

Dunque possiamo qui capire bene come esiste un tipo di fare coscienza che può essere dannoso.
Una volta Jung disse “Siate coscienti, ma non troppo”, volendo indicare proprio il pericolo dell’inflazione della coscienza. Laddove si è molto coscienti si produce anche una zona d’ombra altrettanto enorme. Come ben ci ricorda Hillman
“l’Io forte ha l’Ombra forte, la troppa luce produce il buio intorno”.
E ancora Hillman scrive:
“Per ogni scintilla di luce che strappiamo all’ambivalenza archetipica, illuminando con la candela nel nostro Io un chiaro cerchio di consapevolezza, contemporaneamente rendiamo più buio il resto della stanza”.
Nell’istante in cui accendiamo la candela, creiamo «le tenebre fuori», come se la nostra luce fosse un furto, una sottrazione di paradossale luce archetipica alla penombra crepuscolare.
Coscienza e inconscio nascono insieme come polarità dall’originario stato crepuscolare; e nascono insieme sempre e ogni volta. Pertanto, il processo del «rendere conscio» rende anche inconscio, ovvero, come Jung stesso ebbe a esprimere questa intrattabile verità qui a Eranos:
«Si giunge così alla paradossale conclusione che non esiste contenuto della coscienza che non sia inconscio sotto un altro aspetto. E forse non esiste neppure psichismo inconscio che non sia al tempo stesso conscio»”. (James Hillman – Puer Aeternus)
Possiamo qui notare un apparente contraddizione o paradosso. Ma per chi ha dimestichezza coi contenuti dell’inconscio sa bene che la quasi totalità delle dinamiche psichiche inconsce contengono i paradossi più assurdi, gli stessi riscontrabili parallelamente nel mondo subatomico studiato dalla fisica quantistica. Come a dire, per mantenere l’analogia, che la luce è sia corpuscolare che ondulatoria, alla stessa stregua di un contenuto psichico che può essere da un lato illuminato dalla luce della coscienza e al tempo stesso inconscio e in ombra da un altro versante.
E come ci si dovrebbe interfacciare con questa natura duale della psiche? Come potersi posizionare di fronte ad un atteggiamento eroico e solare di una coscienza che fa luce, e al tempo stesso tenere in considerazione che più luce facciamo più ombra e oscurità stiamo creando?
La coscienza simbolica
Ad indicarci una via in tal senso sembra essere Jung. Parlavamo prima dei diversi tipi di coscienza. Ecco che qui mettiamo in campo un tipo di fare coscienza altro, diverso dall’ordinario. È un tipo di coscienza che conosciamo molto bene – in fondo – in quanto specie umana, e che continuiamo ad usare quasi sempre involontariamente, quando dormiamo, al risveglio, in stato di rilassamento o di armonia profonda: sto parlando della coscienza simbolica.

È l’analista Elena Caramazza a ricordarci questo importantissimo contributo che Jung ci lascia in vari suoi saggi e in particolare lo ricalca nelle Conferenze di Basilea.
Nella interessantissima prefazione che la Caramazza scrive alle Conferenze, sottolinea di come è curioso notare in Jung “il concetto di ‘relatività’ della coscienza, poiché mette meglio in luce come essa possa avere diversi gradi di intensità e di estensione e come la sua attività sia intermittente e discontinua, mentre l’attività dell’inconscio è costante nel tempo, in quanto, anche in stato di veglia, continua a tessere, per così dire, “il suo perpetuo sogno”.
Successivamente, sempre la Caramazza, sulla scia di Jung, ci ricorda come è proprio nell’inconscio, nella sua oscurità più profonda, a nascondersi una luce della coscienza, un lumen che è però diverso da quello della coscienza diurna, solare. Entra qui in gioco la coscienza simbolica.
L’autrice ipotizza che la coscienza simbolica potrebbe servirsi, in modo privilegiato, della funzione dell’intuizione definita da Jung come una facoltà di “percezione per via inconscia”, che “sicuramente si serve di percezioni che sono subliminali, ma che sembra anche prescinderne, quando per esempio ci dà informazioni su cose che sono lontane nello spazio o nel tempo.” (ibidem)

Ciò che risulta chiaro è che questo fare coscienza altro, questa coscienza simbolica, non opera come la coscienza razionale ordinaria, la stessa coscienza razionale con la quale pretendiamo di esplorare – molto maldestramente – anche i fatti dell’inconscio, i suoi prodotti, le sue manifestazioni (sogni, immagini, simboli).
È un operare, quello della coscienza simbolica, che avviene credo proprio in quella zona liminale, di confine – che abbiamo già citato –, dove si intersecano contenuti consci e inconsci, un fare coscienza più lunare e offuscato, un rimanere con gli occhi aperti ma non troppo, un mettere a fuoco gli oggetti in maniera si distinta, ma non troppo, in modo tale da riuscire a vedere più che i contorni differenziati degli oggetti, invece i punti di commistione e di contatto tra loro, quegli stessi punti nei quali lo yin e lo yang, nel simbolo del taijitu, entrano in contatto, si sfiorano, si legano, mantenendo pur sempre il loro statuto ontologico eppure creando un tertium nuovo.
Questo tipo di coscienza era già conosciuto all’anziano Lao Tzu, che la indicava in questi termini:
“Abbassa la luce, diventa tutt’uno con il mondo opaco”
O ancora quando dice:
“Tutti sono chiari, io solo sono offuscato”
Si, perché si tratta di un fare sguardo con occhi semi aperti, degli occhi che dovrebbero riuscire a cogliere i chiaroscuri che appartengono ad ogni realtà, interiore ed esteriore, una coscienza che potremmo anche definire lunare. Proprio Jung infatti descrive questo particolare tipo di luce lunare in questi termini:
La sua “luce” [il simbolo lunare] è la chiarezza più dolce della luna, che unisce invece di distinguere. Diversamente dalla dura e penetrante luce del giorno, essa non fa risaltare nella loro differenziazione e separazione implacabili gli oggetti del mondo che non bisogna confondere tra loro, ma unisce nella sua magica luminosità ciò che è vicino e ciò che è lontano, ingrandisce ciò che è piccolo e abbassa ciò che è elevato, attenua i colori in un semi-chiarore bluastro, e fonde il paesaggio notturno in una irreale unità. (C.G.Jung – La funzione trascendente, in Opere vol. 8.)

Una coscienza dunque che, al pari della coscienza razionale ordinaria, è necessaria per il processo di individuazione, ma anche per addentrarci nel materiale onirico dove sono presenti in gran numero quelle zone liminali di cui abbiamo parlato poc’anzi.
📝 Approfondisci: Che cos’è il processo di individuazione in psicologia?
È una coscienza più adatta ad una coniunctio oppositorum [congiunzione degli opposti] e quindi che fa da preludio e da tappeto alla funzione trascendente di cui Jung ha tanto parlato e insegnato ad utilizzare anche in ambito psicoterapico.
E dunque giungiamo alla conclusione che parlare e trattare di luce senza tener conto della sua controparte che è l’oscurità, l’ombra, non avrebbe tanto senso. Anche nella pratica analitica e più in generale in ambito psicologico, Jung ben ci ricorda che “Non si diventa illuminati immaginando scenari di luce, ma portando alla luce – o alla coscienza – le oscurità interiori”.
In altre parole, è necessario che la luce dell’ombra, dell’inconscio, che posa sul fondo dell’inconscio, sia almeno riconosciuta, guardata, in parte integrata, all’interno della personalità cosciente.

Nel far questo – e qui mi riferisco sia alla vita generale individuale sia all’ambito strettamente analitico – è sempre Jung a ricordarci di un passaggio importantissimo, ovvero che
“in questo confronto tra conscio e inconscio, massima deve essere la cura a che la luce che brilla nell’oscurità non solo venga compresa dall’oscurità, ma che essa stessa comprenda l’oscurità”
Stiamo qui riconsegnando un valore ontologico e di tutto rispetto anche a quell’oscurità che ci abita, su cui sussistiamo e forse grazie alla quale ci rinnoviamo, a quella luce dell’ombra a cui tradizioni millenaria hanno fatto riferimento.
Andando in quell’oscurità dell’inconscio si può scoprire infatti, paradossalmente, che “l’inconscio non è solo buio ma anche luce” (Jung), una luce che forse proviene dal rischiarare le tenebre stesse che la contengono, come a dire che forse l’unica vera luce “è quella che viene dalle tenebre”. E coin Trismegisto possiamo affermare che è un “gran lavoro, trarre il raggio dall’ombra”
FINE.
(Di Emanuele Casale)
«Jung sapeva che c’è una luce al centro di ogni vita individuale nella quale gli opposti sono armoniosamente congiunti sebbene questo sembri sperduto nell’incomprensione, nell’incoscienza e nella discordia. Quanti sono in grado di aprire gli occhi tanto da divenirne consapevoli? Si direbbe addirittura che il futuro del mondo intero dipenda dalla risposta a questa domanda» (Barbara Hannah. Vita e Opere di C.G. Jung. Ed. Rusconi, 1996)
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