Famiglia e individuo: la differenziazione del sé ed il processo di individuazione (Bowen e Jung)

0
34773

Psicologia della famiglia sistemico relazionale

Carl Jung Bowen sistemico relazionale

Anche stavolta a scrivere per il Jung Italia è un ospite d’onore, lo psicoterapeuta Eliseo Ghisu, classe 1972, anche ricercatore presso l’Associazione per la ricerca di psicologia Analitica (A.r.p.a.).

In questo lungo, originale e interessante articolo ci parlerà di:

  • differenziazione dell’individuo dalla famiglia d’origine,
  • di individuazione
  • e dei parallelismi che intercorrono tra Bowen (padre della terapia familiare e sistemica) e Jung

Prima di lasciarti all’articolo volevo ricordare che spesso non tutti sanno che fu in realtà proprio Jung, nei primi del ‘900, a gettare le prime basi scientifiche per quella che poi venne chiamata tanti anni dopo la teoria sistemico-familiare.

Lo fece attraverso i suoi studi di ricerca sulle cosiddette associazioni verbali che contestualizzò anche all’interno di gruppi familiari (vedi il suo saggio “La costellazione familiare”, presente in Opere vol. 2, tomo 2).

Buona lettura!

🔎 LEGGI ANCHE: Alcune malattie prendono il nome di FAMIGLIA. Differenziarsi da nodi e cerchie familiari



La differenziazione del sé ed il processo di individuazione: un parallelo concettuale tra Bowen e Jung

(di Eliseo Ghisu, psicologo psicoterapeuta)

Anni fa lessi un libro intitolato Jung parla, una raccolta di interviste ed incontri che fu pubblicato nel 1977. Un passo di un’intervista mi colpì in modo particolare ed è da questo passo che ha preso il via l’idea di mettere in relazione due autori come Jung e Bowen.

Nel 1955, Stephen Black, un giornalista della BBC, andò a Kusnacht per intervistare Jung in occasione del suo ottantesimo compleanno. I due si incontrarono sulla terrazza della casa dello psicologo svizzero e iniziarono a discorrere sulle divisioni esistenti tra la scuola freudiana, adleriana e junghiana.

Dalla famiglia all'individuo. La differenziazione del sé nel sistema familiare. (Murray Bowen)
Dalla famiglia all’individuo. La differenziazione del sé nel sistema familiare. (Murray Bowen)

Black chiese: quale sarà secondo lei l’esito di questa specie di querelle scientifica tra le varie scuole di psicologia clinica?

Jung rispose: adesso è una contesa, è vero, ma con l’andar del tempo succederà quello che è sempre avvenuto nella storia della scienza. Alcuni punti verranno presi dalle idee di Freud, altri dalle idee di Adler, altri ancora dalle mie. Non è mai questione di vittoria di una sola idea, di un solo modo di vedere le cose. Vittorie del genere si possono ottenere soltanto dove si tratti di presunzione, o di convinzioni soggettive, per esempio di convinzioni filosofiche o religiose. Nel campo della scienza non ci sono né vincitori né vinti, esiste solo la verità nei suoi molteplici aspetti.

Jung indicava dunque la necessità per la costituzione di una scienza psicologica di accumulare conoscenza in maniera integrativa così come aveva fatto ogni altra scienza umana nel corso del suo progresso.

Egli, a differenza di Freud, sosteneva che la sua visione della psicologia non era l’unica possibile in assoluto ma l’unica possibile sulla base delle proprie concrete esperienze dei fatti psicologici dei quali aveva fatto esperienza diretta, posizione epistemologica che sarà poi cara ad un altro pioniere della psicoterapia: Carl Whitaker.

Jung e la sua famiglia
Jung e la sua famiglia

La psicologia, nel suo stadio primordiale di scienza, necessitava dunque, a parere di Jung, del contributo di qualsiasi teoria, metodo ed intervento che mostrasse di avere efficacia nella descrizione del comportamento umano e nella cura dello stesso.

La sua posizione fu dunque sempre a-dogmatica, lontana da quella prepotenza intellettuale del voler ridurre le complessità, lontana da come lo stesso Bowen intendeva la psicoanalisi: un sistema chiuso di credenze come la religione.

Per Jung le teorie erano invece dei meri sussidi validi solo allo scopo di fornire un appoggio concettuale e metodologico all’agire psicologico e affrancati da quell’elevazione a dogma che egli
indicava come indizio della repressione di un dubbio interiore.

Descriverò dunque la differenziazione del sé secondo Bowen e il processo di individuazione di Jung cercando di trovare le analogie e le differenze.

Libri su Jung
La psicologia di C.G. Jung (Jolande Jacobi)

Bowen e la differenziazione del sé: storia di una scoperta accidentale

Nel 1974 Bowen è uno psichiatra affermato. Ha alle spalle una solida esperienza psicoanalitica, iniziata dopo il ritorno dal servizio militare durante la seconda guerra mondiale, ha lavorato dal 1954 al 1959 al National Istitute di Bethesda nel Maryland cominciando ad estendere il lavoro sulla diade madre-bambino includendo anche la figura paterna e teorizzando su base pratica il nucleo del concetto di triangolo della sua teoria.

Nel 1959 si trasferisce a Washington, al Georgetown Medical Center dove compie la maggior parte della sua attività clinica con le famiglie, le ricerche e l’insegnamento agli specializzandi di psichiatria.

Il 1974 è l’anno della pubblicazione nei Georgetown Family Symposia dell’articolo “Toward the differentiation of self in one’s family of origin”. In esso chiarisce le linee guida del suo agire professionale in quello che chiamò il sorprendente cambiamento dovuto ad una scoperta accidentale.

Murray Bowen
Murray Bowen

L’articolo è diviso in tre parti:

  • la prima parte analizza il punto chiave che cambia per sempre il modo di lavorare con le famiglie,
  • nella seconda si espongono dei principi concettuali generali per la differenziazione
  • ed infine nella terza Bowen fa delle considerazioni sul nuovo metodo di lavoro.

Nel 1967 Bowen assiste, durante un convegno, ad una relazione nel quale si parla di quella che lui poi chiamerà differenziazione dalla propria famiglia d’origine 📝.

Il relatore descrive dodici anni di faticose esperienze focalizzate sul triangolo tra sé e i propri genitori e giunge alla conclusione che gli altri triangoli interconnessi tra i membri della sua famiglia hanno il potere di bloccare la differenziazione e che quindi era necessario agire anche su di essi.

Bowen è entusiasta della relazione e scrive che l’esperienza viene immediatamente a riflettersi sulla attività didattica a Georgetown. Qual’era il nuovo insegnamento nell’ambito delle relazioni interpersonali? Scrive Bowen venne data un’importanza nuova alla capacità di vedere la propria famiglia più come un insieme di persone che come immagini introiettate emotivamente, alla capacità di osservare se stessi in situazioni triangolari e ai modi di de-triangolarsi.

La nascita della psicoterapia familiare (Murray Bowen)
La nascita della psicoterapia familiare (Murray Bowen)

La psicologia fino ad allora considerava l’altro da sé esclusivamente alla luce dell’introiezione. L’altro era presente in me filtrato alla luce (o al buio si potrebbe anche dire considerando le percezioni inconsce) della mia personale esperienza.

L’asserzione di Bowen – vedere la propria famiglia come un insieme di persone – dava allo sguardo, esente da qualsiasi emotività espressa, la capacità di conoscere l’altro e di riconoscerne la diversità, prerogativa per l’accettazione della sua peculiarità.

Trovo riconducibile, a questo proposito, un passo del Vangelo di Luca. Nel racconto del triplice rinnegamento di Simon Pietro, l’evangelista descrive la reazione del Cristo al tradimento 📝 con queste parole: “allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro (Lc22-61).

Porto questo esempio per riflettere sul fatto che il guardare oggettivamente comporta il tentativo di tenere a freno le proprie componenti emotive. Se il Cristo non fosse stato un essere già profondamente differenziato, avrebbe potuto comportarsi come umanamente sarebbe stato comprensibile di fronte al tradimento flagrante di un amico, esprimendo cioè una rabbia istantanea. La conoscenza di sé lo portava a poter guardare Simon Pietro com’era: ossia diverso da sé.

L’esempio del Cristo è evidentemente un esempio limite e paradigmatico ma che ci può aiutare ai fini dell’argomentazione.

Murray Bowen
Murray Bowen

Torniamo ora però a quel convegno del 1967, cosa accadde dopo? Il nuovo indirizzo metodologico viene ad essere utilizzato spontaneamente: gli allievi rientrano periodicamente nelle loro famiglie e tornano con il racconto di quello che era successo. I contenuti vengono poi discussi in una riunione collettiva alla quale partecipano una ventina circa di allievi e nella quale si danno
dei suggerimenti per la prossima visita.

Bowen si accorge che il lavoro clinico di questo gruppo di specializzandi è migliore di quello di qualsiasi altro gruppo che lui abbia mai seguito. Si chiede se ciò sia dovuto a delle variabili personali ma col tempo si rende conto che la differenza risiede nel fatto che chi svolge un buon lavoro con la propria famiglia, fa poi altrettanto sul piano clinico con i propri pazienti.

Un anno dopo, Bowen supervisiona questo stesso gruppo in relazione alle dinamiche emotive e interattive nelle loro famiglie nucleari e si accorge che gli specializzandi avevano automaticamente applicato le stesse conoscenze acquisite nel lavoro con la propria famiglia d’origine. Ciò rappresenta per Bowen quello che lui definì un punto di viraggio della sua vita professionale.

Nel momento in cui si sta convincendo che il più importante cambiamento consiste nel lavoro sulla relazione tra sé e la persona principale della propria vita, l’esperienza condotta con il gruppo degli specializzandi lo porta a cambiare idea. Da quel momento in avanti il punto cruciale è la differenziazione del sé nella famiglia di origine.

Cosa s’intende con ciò? Scrive Bowen:

il concetto della differenziazione del sé ha a che fare con la misura in cui una persona diviene emotivamente differenziata dal genitore.

Terapia familiare ultramoderna. L'intelligenza terapeutica (Juan Luis Linares)
Terapia familiare ultramoderna. L’intelligenza terapeutica (Juan Luis Linares)

Dentro la massa dell’io familiare (fattori condizionanti e determinanti la differenziazione)

Da che cosa dipende l’esito di questa separazione emotiva? Bowen indica tutta una serie di fattori che possono condizionare la differenziazione del sè:

  • Sesso di appartenenza
  • Ordine di nascita
  • Normalità del proprio patrimonio genetico
  • Fattori insiti nella madre
  • Grado di differenziazione della madre dai propri genitori
  • Tipo di relazione della coppia coniugale prima e dopo la nascita
  • Capacità di problem solving nei genitori
  • Clima emotivo prevalente nella famiglia d’origine
  • Tipo di relazione della madre coi genitori e con le persone significative
  • Capacità di affrontare lo stress della madre

Un’altra variabile importante è quella che rientra in qualsiasi sfera umana, vale a dire le circostanze favorevoli o meno. Le congiunture socio-economico possono condizionare pesantemente un processo di differenziazione, si pensi alle difficoltà che oggi le nuove generazioni hanno nel progettare una vita indipendente fuori dall’abitazione dei genitori.

Murray Bowen
Murray Bowen

Tra i fattori sopraelencati alcuni sono riconducibili alla teoria dell’attaccamento (Bowlby 1969). Bowlby ha chiarito che se un individuo ha un modello operativo interno che corrisponde ad un senso di sicurezza, allora l’individuo sarà in grado di esplorare il mondo, di maturare e di separarsi dal genitore in maniera sana.

Ciò che Bowen chiama – fattori insiti nella madre – può essere ricondotto a ciò che Mary Main (1995) ha definito lo stato della mente dei genitori rispetto all’attaccamento.

Stern e Field mettono in evidenza come i figli di madri depresse abbiano meno capacità di regolare stati emotivi intensi (sia positivi che negativi) perché meno “allenati” dall’esperienza con i loro caregivers.

Nell’articolo Bowen non approfondisce dettagliatamente gli aspetti dell’elenco puntato qui sopra ma passa subito a chiarire che la differenziazione non è identificabile con:

  1. distanza fisica
  2. separazione forzata
  3. avere opinioni diverse
  4. consapevolezza per insight
Come Liberarsi dalle ripetizioni familiari negativi. I segreti della psicogenealogia
Come Liberarsi dalle ripetizioni familiari negativi. I segreti della psicogenealogia

Bowen già nel ’66 ha un’intuizione che lascerà tracce profonde nella sua teoria e prassi terapeutica. Parla di “io familiare” come se si potesse immaginare che ogni famiglia sviluppa un Io, ossia una forma di coscienza con la quale, come con tutte le forme di coscienza, è possibile scambiare informazioni ed energia.

L’io della famiglia è un’entità psicologica formata dalla psicologia dei suoi membri. Si potrebbe dire che l’io della famiglia è per lo più inconscio a se stesso ma riconoscibile da un osservatore esterno.

Bowen immagina l’io familiare come una massa indifferenziata, un crogiolo di idee, opinioni, emozioni, sentimenti, modi di essere, modi di comunicare, di essa dirà che è un’espressione più pratica che precisa.

Il campo emotivo è ciò che succede nelle diverse aree di osservazione. L’autore americano è convinto che la differenziazione si possa misurare e presenta una scala della differenziazione del sé, uno strumento formato da un punteggio da 0 a 100 col quale colloca le persone in diverse fasce di differenziazione.

Frida Kahlo, Ritratto della famiglia di Frida (1950 - 1954) - Olio su fibra dura, 41 x 59 cm Città del Messico, Museo Frida Kahlo, Mexico
Frida Kahlo, Ritratto della famiglia di Frida (1950 – 1954) – Olio su fibra dura, 41 x 59 cm, Città del Messico, Museo Frida Kahlo, Mexico

1) Da 0 a 25 colloca persone con un livello profondo di fusione dell’io che vivono dipendenti dai sentimenti che gli altri provano nei loro confronti, son persone che impiegano la loro energia per essere amati e amare o reagire nella sensazione di avere fallito nel cercare amore, non sono in grado di differenziare il sistema affettivo da quello intellettivo, sono incapaci di usare un io differenziato che dice: io sono, io credo, io farò o non farò.

Interessante come Bowen affermi che queste persone usano l’io come narcisistico: io voglio-son ferito-esigo i miei diritti. A livello 10 o più sotto, Bowen mette gli schizofrenici 📝 e poco più sopra i loro genitori.

2) Da 25 a 50 rientrino le persone con una fusione con l’io familiare meno intensa, con un sé poco definito o soltanto la capacità potenziale di esprimerlo.

Anche i soggetti che Bowen fa rientrare in questa fascia, impiegano troppa energia vitale nell’amare o ricevere amore e approvazione con poca energia da spendere in attività autonome volte al raggiungimento di obiettivi precisi.

Sono persone dipendenti dal consenso degli altri che si adattano all’ideologia predominante. Scrive Bowen invece di servirsi dell” io credo” delle persone differenziate possono dire “la scienza dimostra”, ed è possibile usare la scienza, la religione o la filosofia, estraendole dal loro contesto per dimostrare qualsiasi cosa. Sono persone che possono andare incontro, ai livelli più bassi della fascia, a stati psicotici transitori o problemi delinquenziali, a nevrosi se nella parte alta.

3) La fascia tra 50 e 75 include persone che raggiungono un più alto grado di differenziazione. Son persone con delle opinioni personali abbastanza definite ma con una forte pressione verso il conformismo. Hanno tuttavia più capacità di perseguire degli obiettivi e se incorrono in sintomi emotivi, questi sono saltuari e vengono risolti più velocemente.

4) Nel descrivere l’ultimo quarto della scala, da 75 a 100, Bowen esordisce con una frase sorprendente. Le persone che si trovano nell’ultimo quarto della scala sono coloro che non ho mai visto nella mia pratica clinica e che raramente incontro nelle relazioni sociali e professionali.

Sulla base della sua esperienza clinica colloca il 90% delle persone nella metà più bassa della scala e solo il 10% in quella alta. Vado ora ad analizzare il costrutto di persona differenziata

Murray Bowen
Murray Bowen

La persona differenziata secondo Bowen: un’ideale possibile

Che caratteristiche di personalità ha dunque la persona che Bowen idealmente colloca nella fascia alta della sua scala di differenziazione? Vediamole in sequenza.

La persona differenziata:

  • ha dei principi personali
  • persegue i propri obiettivi
  • è sicura delle proprie opinioni e convinzioni
  • non è dogmatica
  • è flessibile
  • ascolta gli altri
  • può cambiare idea
  • non è dipendente dall’approvazione altrui
  • rispetta la diversità dell’altro senza cercare di cambiarlo
  • è indipendente dalla lode o critica altrui
  • si assume responsabilità
  • è consapevole della sua differenza dagli altri
  • è capace di relazionarsi alla pari con l’altro
  • può avere un sé ben definito e allo stesso tempo avere un intenso rapporto emotivo
  • si sposa con persone di pari livello di differenziazione

Bowen parla di un teorico livello di completa differenziazione. Il che non esclude la possibilità che un individuo possa aver sviluppato tutte o la maggior parte di questi atteggiamenti. Tuttavia l’autore fa una precisazione importante quando distingue tra livelli base di differenziazione e livelli funzionali.

Processo di individuazione
Il processo di individuazione (M.Stein)

I livelli base sono quelli descritti nella scala e che ci permettono di individuare le caratteristiche per così dire di “tratto” di una personalità.

I livelli funzionali sono invece quelli di “stato”. Vale a dire, ci possono essere delle fluttuazioni nel comportamento della persona di fronte alle richieste dell’ambiente che possono influenzare o meno il suo livello base di differenziazione.

Il livello di differenziazione del sé si sposta frequentemente a seconda che le situazioni esterne siano favorevoli o sfavorevoli.

Nella famiglia con alti livelli di ansia, questa variabile giocherà a sfavore della differenziazione e viceversa una con bassi livelli di ansia avrà un terreno psicologico favorevole alla sperimentazione del proprio sé. Il punto chiave è quello di migliorare il proprio livello funzionale controllando l’ansia e la propria reattività all’ansia.

Processo di individuazione Diventa chi sei Jung
Coscienza, inconscio e individuazione (C.G. Jung)

Bowen sostiene che, lavorando per lunghi periodi, il miglioramento dei livelli funzionali può portare al miglioramento del livello base. Il che può essere messo in relazione con le ricerche sulla teoria dell’attaccamento, laddove si indicano dei cambiamenti da un tipo di attaccamento insicuro o evitante ad uno di tipo sicuro sul quale Siegel (2001) mette in epigrafe le parole – la libertà di riflettere – convergendo dunque con la persona differenziata di Bowen: capace di fare osservazioni.

I sinonimi di differenziazione che Bowen utilizza sono “definire il sé” e “lavorare alla propria individuazione”. Sinonimi che rientrano propriamente nella sfera concettuale junghiana.

Torniamo al lavoro pratico dello psichiatra americano. Bowen dunque favorisce il contatto dei suoi studenti con le famiglie d’origine e li allena, per così dire, a guardare obiettivamente ciò che succede nel campo emotivo e a non farsi coinvolgere in esso. È una specie di missione – scrive Bowen – che richiede molto tempo.fami

In cosa consisteva questo allenamento psicologico? I punti cardinali erano sostanzialmente tre:

  1. si incoraggiavano le relazioni a due nelle famiglie
  2. si lavorava sulle capacità d’osservazione e sul controllo dell’emotività
  3. si insegnava a de-triangolarsi dalle situazioni emotive.
Murray Bowen
Murray Bowen

1) Perché era importante incoraggiare la relazione a due?

Perché anzitutto comportava la comunicazione autentica tra due persone, il che favoriva l’autoconoscenza, in seconda battuta migliorava il sistema relazionale familiare. Bowen sostiene che una relazione a due comporta dei livelli profondi di comunicazione da non confondersi con una comune congenialità. Il fatto è che le famiglie s’incontrano sempre come gruppi ed è difficile accedere ad una comunicazione autentica. Ci sono sempre delle specie di ambasciatori incaricati nello scambio di informazioni.

2) Tutti abbiamo sperimentato (ovviamente) l’essere coinvolti in un sistema emotivo familiare. Le emozioni del sistema ci hanno attraversato e ci attraverseranno sempre. Il punto che Bowen
sottolinea è proprio questo. Non si darà mai l’essere completamente obiettivi e distaccati dal sistema emotivo, allo stesso tempo si possono fare passi avanti nel livello di controllo delle proprie
emozioni e nell’obiettività con cui si guardano gli altri membri familiari. Scrive Bowen:

“è un vantaggio per la famiglia se uno dei suoi membri riesce a porsi in rapporto più liberamente senza prendere posizioni e senza farsi irretire nel sistema emotivo familiare (…) durante questo sforzo con la famiglia la persona arriva ad avere un ruolo unico che è importante per tutti, è rispettato e contribuisce all’individuazione e alla responsabilizzazione.”

Bowen reputa la persona differenziata capace di dominare la propria reattività emotiva, il che non significa, come sottolineato sopra, che non reagisca con reazioni emotive naturali.

Interessanti i termini che Bowen utilizza per descrivere il controllo della reattività emotiva: fare osservazioni che lo aiutano a controllare se stesso e la situazione.

Fare osservazioni ossia ciò che implica l’utilizzo del “cervello razionale” (corteccia orbitofrontale) che come dimostrano le neuroscienze è antagonista del “cervello emotivo” (aree limbiche, circuiti del tronco encefalico, circuiti sensoriali).

Richard Davidson, direttore del Laboratory for affective neuroscienze a Madison (University of Wisconsin) ha studiato come il nostro cervello reagisce alle emozioni. Abbiamo delle parti del cervello che sono coinvolte quando sorge un emozione e parti invece deputate alla loro regolazione. Fare osservazioni implica quello che Bowen intendeva con il guardare l’altro come una persona e non attraverso il proprio introietto.

Mettersi alla distanza giusta per osservare l’altro, mentre l’emozione è coinvolgente per natura.

Murray Bowen
Murray Bowen

3) l’obiettivo della de-triangolazione è quello di mantenersi in contatto con un sistema emotivo, senza prendere posizione da una parte o dall’altra, senza difendersi, evitando di fare l’errore di confronti emotivi.

Per questo Bowen consigliava ai propri studenti di essere presenti nei momenti di vita familiare nei quali agivano particolari situazioni emotive, perché era proprio allora che si poteva mettere in pratica una differenziazione del proprio sé.

Era allora, sotto il fuoco di fila delle emozioni, che era possibile sperimentare una posizione emotiva diversa: controllare le proprie emozioni.

Bowen arriva al concetto di differenziazione studiando la schizofrenia 📝, che definisce una forma esasperata di indifferenziazione.

La persona indifferenziata ha la funzione del pensiero condizionata dal sentimento e dalle emozioni. Gli riesce dunque difficile arrivare a “pensare” sulle proprie emozioni e sentimenti ossia a regolarli. La persona che si differenzia disturba l’equilibrio del sistema e trova sempre delle forze che gli si oppongono e che tendono a ristabilirlo.

Bowen sostiene che se l’individuo riuscirà a resistere a queste opposizioni, senza difendersi o contrattaccare la famiglia, in un secondo momento, addirittura apprezzerà la sua posizione personale.

Da una parte avremo dunque delle forze che fanno leva sulla coesione familiare e cercano di riportare l’individuo allo status quo, dall’altra la spinta alla differenziazione.

Operativamente una differenziazione si esprime con una concreta forma di comunicazione – questo è ciò che io penso e credo, questo è quello che farò o non farò -, che può portare ad uno squilibrio emotivo nella famiglia che reagisce comunicando (in svariate forme) tre messaggi tipo secondo Bowen:

  • hai torto
  • torna indietro
  • se non lo fai queste sono le conseguenze

A questo punto la “posizione io” è sfidata da un gioco dove le possibilità sono soltanto due.

Pragmatica della comunicazione umana (P. Watzalawick)
Pragmatica della comunicazione umana (P. Watzalawick)

Bowen sostiene che l’atteggiamento migliore sia quello di non accettare la sfida ma di andare avanti superando la reazione emotiva del sistema. Reazione che a volte può essere estrema come riporta Bowen in un esempio tratto da una clinica coniugale ove la moglie di fronte alla inedita “posizione io”, minaccia di richiedere un divorzio.

Scrive Bowen: “lui mantenne la calma e le fu molto vicino (…) quando egli mantenne la sua posizione, la reazione emotiva della moglie rappresentò una spinta ad elevarsi al livello di lui. Il mio orientamento teorico considera questa sequenza come una crescita fondamentale della differenziazione bilaterale, che non può più tornare al livello di partenza. Cosa sarebbe successo se il marito avesse reagito anch’esso emotivamente? Si sarebbero distolte energie utili al perseguimento dei propri intenti.”

Bowen in questo passo preannuncia un motivo cardine della differenziazione ossia il suo carattere evolutivo e in progress.

Analizzando ora il versante terapeutico, come può un terapeuta aiutare a migliorare il livello di differenziazione dei membri di una famiglia?

Bowen tratta questo argomento nell’articolo del ’66: “uso della teoria della famiglia nella pratica clinica”. Nella presa in carico di una famiglia che si decide a richiedere una consulenza secondo Bowen sostanzialmente per tre ordini di motivi:

  1. conflitto coniugale,
  2. disfunzione di un coniuge
  3. disfunzione di un figlio

Bowen intravede due strade.

La prima è quella di promuovere la differenziazione del sé di ciascun coniuge mentre lavora nel triangolo con un terapeuta che dev’essere emotivamente distaccato e capace di de-triangolarsi.

La seconda strada è quella invece di lavorare in individuale col terapeuta allo scopo di differenziarsi da un’altra persona significativa.

Psicologia Coppia Matrimonio
Matrimonio. Vivi o morti (Adolf Guggenbuhl-Craig)

Trovo eloquente l’immagine (quella di un’acquitrino) con cui Bowen descrive una famiglia in impasse. Sin dal primo incontro, il terapeuta è fondamentale che definisca il proprio sé (posizione: ciò che farò, ciò che non farò) nei confronti delle problematiche della famiglia.

Bowen crede che se ciò non avviene, anche la possibile differenziazione degli altri sé possa esserne condizionata negativamente, mentre d’altro canto si sostiene e sperimenta che se il rapporto tra coniugi cambia, cambia anche l’intero sistema familiare. 

Inizialmente la terapia di Bowen ha una struttura complessa. La famiglia-coppia- è seguita con incontri settimanali, per un totale di 175-200 ore nell’arco di quattro anni. Lo psichiatra ritiene dunque necessario un tale periodo di tempo per una significativa differenziazione del sé.

In seguito Bowen si convincerà ad apportare delle modificazioni nella struttura e farà incontri a scadenza temporale più ampia, perseguendo sempre i medesimi obiettivi evolutivi.

🔎 Leggi: Psicologia del matrimonio: le scelte inconsce del partner tra proiezioni e identificazioni

Jung e il processo di individuazione

Jung Libreria Casa Kusnacht

Il concetto di individuazione fa la sua comparsa negli scritti junghiani nel 1912 in una nota di Simboli e trasformazioni della libido. È un passo in cui Jung scrive sulla separazione
dell’individuo dalla madre:

“la separazione e la differenziazione dalla madre, l’individuazione, produce quel porsi di fronte tra soggetto e oggetto che è il fondamento della coscienza.”

🔎 Per approfondire leggi: Che cos’è l’individuazione? 

Notiamo come già questo incipit negli scritti junghiani sull’individuazione indichi il carattere fondamentale della differenziazione del proprio sé da una figura importante dello scenario familiare, andando così a collimare con la tesi sostenuta in questo lavoro.

Nel 1912 Jung pubblica un altro testo, Vie nuove della psicologia, ove usa il termine individuazione sempre come sinonimo di separazione e differenziazione dalla madre reale e dall’imago materna proiettata. L’individuazione comporterà dunque una disidentificazione dall’immagine materna interiorizzata. Anche qui è evidente la vicinanza col discorso di Bowen sulla necessità di vedere i membri della propria famiglia più come persone che attraverso le proprie immagini introiettate.

Nel 1916 Jung tiene una conferenza presso la Zürcher schule für analitiche psychologie poi riadattata in due brevi manoscritti intitolati il primo Adattamento e il secondo Individuazione e collettività. In quest’ultimo Jung fa delle considerazioni sulla “tragica colpa” che comporta il prendere le distanze dall’unanimità e da quanto fino ad allora era espressione di un ethos collettivo.

In Tipi psicologici (1920) Jung scrive che l’individuazione è un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale mentre ne l’Io e l’inconscio( 1928) individuazione significa diventare un essere singolo e intendendo noi per individualità la nostra più intima, incomparabile e singolare peculiarità, diventare noi stessi, realizzare il proprio Sé.

Perché Jung parla di processo? Ossia di un qualcosa che si esplica in una dimensione temporale? Un’ altra citazione tratta da Coscienza, inconscio ed individuazione, (1939) aiuta a chiarire il costrutto psicologico in esame:

“uso il termine individuazione per indicare quel processo che crea un individuo psicologico, vale a dire un’unità separata e indivisibile, un tutto.”

Dunque il processo d’individuazione 📝 è un processo naturale in atto nell’uomo -ab initio-, una tendenza spontanea che laddove intervengano cause in grado di renderla inattiva, può essere ripristinata terapeuticamente ossia ab exsterno. Nel concetto di processo d’individuazione si esprime dunque il carattere evolutivo della psicologia junghiana.

Jung (1939) scrive che l’individuazione è uno stadio dello sviluppo dell’essere umano che è in potenza dall’inizio e che giunge ad essere in atto nel tempo e col passare del tempo. Lo psicologo svizzero affermerà (1961) che è il concetto principale della sua psicologia. In questa cornice epistemologica, la malattia è uno stadio del processo di individuazione. La malattia/sintomo interviene come uno stadio richiedente la liberazione del contenuto positivo in essa celato che può portare sia ad un atteggiamento nuovo che ad un’idea nuova o un cambiamento relazionale.

Per questo Jung scrisse che la nevrosi è una benedizione di Dio (1928), in quanto può essere propedeutica di un cambiamento significativo senza la quale esso non avrebbe la possibilità di compiersi.

🔎 Leggi anche: Che cos’è la nevrosi?

Seguendo Pieri (1998) “l’individuazione attraverso la differenziazione viene a rappresentare il passaggio sul piano psichico alla differenziazione di una singola parte sia rispetto a un’altra parte che rispetto al tutto e ciò avviene laddove una parte abbia potuto prendere letteralmente –visione- dell’inconscia identità o confusione con cui si trovava con l’altra parte o con il tutto”.

Nevrosi e sviluppo della personalità (Karen Horney)
Nevrosi e sviluppo della personalità (Karen Horney)

Mettiamo vicina questa affermazione al concetto di massa indifferenziata dell’io familiare. Pieri riflette anche sul fatto che il processo d’individuazione ha il carattere di eccezionalità, non tanto per considerazioni di natura elitaria, ma perché avendo come risultante l’individualità, questa è un fatto eccezionale –unico- di per sé.

Propongo adesso un parallelo tra il concetto di posizione io e il concetto di individuazione. La meta del processo d’individuazione è dunque la costituzione di un individuo psicologico ossia di una cosciente posizione psicologica di fronte al mondo oggettivo e soggettivo.

S’intenda dunque l’individuazione non come un ente metafisico o meglio metapsicologico, come sottolinea Pieri (ib.) bensì “l’individuazione risulta essere l’azione stessa del processo ideazionale e rappresentativo e cioè non è un oggetto che noi vediamo, né è il soggetto che vede; essa è piuttosto lo sguardo con cui ogni volta noi guardiamo noi stessi e il mondo e così facendo li costituiamo come elementi cognitivi ed affettivi e percò psichicamente significativi.”

Sguardo: posizione. È necessario ora aprire una parentesi e parlare del modello strutturale della psiche secondo Jung per inquadrare meglio i contenuti proposti. Ciò porterà ad avvicinare concetti quali: archetipi, inconscio collettivo, coscienza e appunto individuazione.

La nostra formazione psichica è soggetta alle variabili ambientali (culturali) e costituita da variabili naturali (psicofisiche). Dalla nascita facciamo delle esperienze che s’incontrano con la nostra peculiarità esistenziale (psico-fisica). Ora, una domanda. Le esperienze formano le nostre peculiarità psicologiche o queste sono date a priori? È il vecchio problema dell’innatismo versus ambientalismo.

La risposta a questa domanda è indecidibile se ragioniamo in termini dicotomici. Le neuroscienze oggi chiamano –fattori epigenetici– le modalità con cui le esperienze influenzano i processi di espressione genica. Da qui il concetto di mente relazionale ossia di mente formata anche dalle relazioni esterne, verità scientifica che farà fatica ad affermarsi. Siamo infatti, attualmente, affascinati dalla ricerca del “gene determinista” che spieghi qualsivoglia piega del comportamento umano, una cultura dove il modello medico spadroneggia, per azione si potrebbe dire di una rappresentazione archetipica della guarigione che viene proiettata sulla materia a scapito del mentale (tanto da ridurre il mentale a fatto meramente materiale).

La mente relazionale. Neurobiologia dell'esperienza interpersonale (Daniel J. Siegel)
La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale (Daniel J. Siegel)

Oggi sappiamo che non è tutto predeterminato geneticamente ma, le variabili ambientali svolgono un ruolo determinante nella manifestazione (fenotipo) di un genotipo. Studi su gemelli monozigoti, per esempio, trovano una concordanza in meno del 50% dei casi per le manifestazioni comportamentali della schizofrenia.

Il mondo sociale-relazionale influenza dunque l’espressione genica e quindi i processi che portano alla formazione dei collegamenti neuronali su cui si basa l’attività della mente. Le funzioni di questi collegamenti neuronali sono determinate da come sono formati, cambiamenti nella trascrizione delle informazioni genetiche provocano cambiamenti strutturali delle cellule nervose e plasmano ciò che ora chiamiamo -mente relazionale-.

Anche le attività della mente possono modificare le condizioni fisiologiche cerebrali che possono così dar luogo all’espressione di geni diversi. Il bambino non è una tabula rasa, ha già preordinati sul piano fisico degli istinti (ha fame, ha sete etc) e sul piano psicologico delle “possibilità e necessità relazionali” (sia con persone reali che astratte-divinità).

Cosa sono gli archetipi? Jung sostiene che gli archetipi costituiscono la struttura psichica, sono il contenuto dell’inconscio collettivo e il corrispondente psicologico di quello che gli istinti sono sul piano fisico. Distingue più precisamente l’archetipo dalla rappresentazione archetipica o immagine dell’archetipo.

Il primo è un modello ipotetico, il secondo è la sua manifestazione empirica. Sull’origine di questa struttura psichica Jung (1939) sostiene che è “una questione che concerne la metafisica e alla quale non possiamo pertanto rispondere.”

Gli Archetipi dell'inconscio collettivo (C.G. Jung)
Gli Archetipi dell’inconscio collettivo (C.G. Jung)

Quindi io nasco con delle modalità archetipiche di comportamento, che sono delle potenzialità psicologiche già presenti. Jung (1954) in “Gli archetipi dell’inconscio collettivo” scrive di contenuti e comportamenti che (cum grano salis) sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui”. Tra i termini che Jung usa per descrivere l’inconscio collettivo ci sono: matrice (1977), sostrato psichico comune (1954).

Il bambino appena nato non ha un “io” che “stabilisce” che guarderà la madre mentre questa lo allatta. Lo fa e basta, semplicemente. Costruisce una relazione psicologica: naturalmente. L’io cresce su queste possibilità e se tutto va bene non si sviluppano nevrosi o psicosi.

La nevrosi, come abbiamo visto, è un blocco nel processo di individuazione (sviluppo) di una personalità. Secondo Jung il compito del terapeuta è quello di accompagnare il paziente attraverso l’analisi di ciò che la sua coscienza percepisce nel confronto con i simboli dell’inconscio e i motivi/immagini archetipici che che si esprimono naturalmente (per esempio nei sogni, nei disegni, nei temi della propria narrazione).

L’inconscio ha una qualità collettiva in quanto i simboli e i motivi archetipici (es. il femminile negativo, la strega) si ritrovano nelle più diverse culture a testimonianza di quella potenzialità psicologica iniziale. Quando Bowen scrive che tutte le generazioni appartengono a un processo naturale continuo, in cui ciascuna generazione è presente alle spalle di quella successiva, sta concettualizzando mutatit mutandis qualcosa di simile a quello che Jung chiama inconscio collettivo, ossia una matrice comune che contiene tutte le possibili esperienze dell’uomo.

L'io e l'inconscio (Jung)
L’io e l’inconscio (Jung)

Entrambi riconoscono il carattere storico dei fatti psichici. La differenza la fa l’uso del termine inconscio. Ma come potrei essere cosciente di tutto ciò che ha fatto la generazione prima della mia e di quella ancora prima e così via? L’influsso può esserci ma come faccio ad esserne cosciente?

Date tali premesse considero comprensibile l’utilizzo del termine -inconscio- termine che dev’essere inteso, secondo Jung, come premessa epistemologica (mutuato dalla filosofia di Karl Robert Hartmann, autore di Filosofia dell’inconscio, e di Carl Gustav Carus prima ancora che da Freud), il che però non esclude ovviamente che si possano rinvenire dei dati empirici riconducibili all’esistenza di una parte inconscia della psiche (Freud ha il merito di esser stato il primo a studiare questi dati empirici).

L’attività psichica onirica si può forse dire che sia “fatta” dalla coscienza? E il processo creativo? L’intuizione è “fatta” forse dalla coscienza? E l’immaginazione? Le visioni (termine orrorifico che si ha forse tema di usare in psicologia quasi non esistessero come esperienza psichica)?

🔎 Leggi: Che cos’è l’inconscio in psicologia? Dinamiche di qualcosa d’autonomo che vive in noi

Siegel (2001) sostiene che il non è formato da una parte conscia ed una inconscia separate da una linea di demarcazione; piuttosto il Sé è creato da processi inconsci e dalla selettiva associazione di questi processi in un’entità chiamata coscienza. Jung illustrerà lo stesso concetto con l’immagine di due cerchi iscritti l’uno dentro l’altro. Quello più piccolo: la coscienza con le sue funzioni cognitive, quello più grande: l’inconscio personale e collettivo. Il Sé è rappresentato dai due cerchi.

Struttura della psiche secondo Jung (tratta dal libro "La psicologia di C.G.Jung", di Jacobi)
Struttura della psiche secondo Jung (tratta dal libro “La psicologia di C.G.Jung“, di Jacobi)

Le possibili esperienze-tipo dell’uomo (gli archetipi) si esprimono in forma simbolica. Ciò che si esprime è un’immagine di un determinato motivo archetipico. Inizia dunque un lavoro di dialogo tra conscio ed inconscio che è teso all’integrazione della personalità e alla risoluzione dei blocchi nevrotici o alla ricomposizione psichica dopo uno sfaldamento psicotico (evento che Jung considera particolarmente difficile).

La coscienza tiene in considerazione quello che la psiche inconscia esprime. Non c’è un metodo valido per chiunque, anche perché il simbolo non è un segnale per sua natura ma ha la possibilità di essere inserito in un contesto di significato (senza con questo ridurre la sua essenza profonda che rimane comunque simbolica).

Il simbolo esprime sempre di più di ciò che mostra. L’etimologia del termine viene dal greco e vuol dire –mettere insieme-. I greci usavano questo termine per indicare un accordo tra due famiglie: si spezzava una tavoletta di terracotta ed ogni famiglia ne teneva un pezzo. I pezzi tenuti indicavano l’accordo preso, il qualcosa in più formato dalle due metà. Soltanto l’un pezzo infatti combaciava perfettamente con l’altro.

Per analogia, così come i due pezzetti di terracotta non sono niente da soli, mentre insieme formano una tavoletta che sta per l’accordo su qualcosa , così secondo Jung per l’integrazione psichica si ha bisogno che la coscienza (pezzo 1 della tavoletta) si prenda cura dell’inconscio (pezzo 2) e di ciò che esso esprime per venire a capo di un’individuazione.

Jung ha dedicato ampi studi alla fenomenologia del processo d’individuazione, ai simboli che in esso si esprimono soprattutto nelle sue vaste opere dedicate allo studio dell’alchimia. Ove il processo alchemico era la proiezione da parte degli alchimisti di un processo di individuazione descritto per fasi. Il suo interesse per la mitologia, per tutte le produzioni dello spirito umano (arte, religione, poesia, letteratura, fiabe, creatività comune) non è stato mai ridotto ad una sublimazione della mera pulsione sessuale.

Jung L'uomo e i suoi simboli Libro Psicologia
L’uomo e i suoi simboli (C.G. Jung e collaboratori)

Perché la pulsione sessuale (Freud) dovrebbe essere più importante, per esempio, della pulsione a sfamarsi? O della pulsione al potere (Adler)? Jung non trova una risposta plausibile a questa domanda. Preferisce considerare la libido una forma generale di energia psichica e non esclusivamente sessuale (posizione che alla fine raggiunse anche Freud quando riconobbe delle pulsioni dell’io).

Il processo d’individuazione non era assimilabile ad un processo terapeutico. Jung dirà

perché terapia? non è una terapia. È terapia quando un gatto diventa un gatto? È un processo naturale. L’individuazione è un processo naturale: è quello che fa diventare albero un albero; se si interferisce, l’albero si ammala e non può più funzionare come albero, ma lasciato a se stesso, lo diventa naturalmente. Questo è l’individuazione. (…)”.

Ciò che è terapeutico per Jung era ripristinare il libero fluire dei contenuti dall’inconscio atto a favorire il dialogo tra coscienza ed inconscio o detto in altri termini la considerazione del simbolo. Qual’era il fine di questo processo l’abbiamo già indicato: la nascita di un individuo psicologico, separato dagli altri e proprio perché separato, connesso (troveremo questo concetto ben figurativamente esplicato dal Barone rampante).

Jung chiama –– la risultante psicologica del processo d’individuazione. In “La psicoterapia oggi” (1945), scrive

“questo processo crea addirittura un nuovo centro della personalità, che se prima si mostra superiore all’Io in virtù della presenza di simboli , poi rivela anche empiricamente la sua superiorità. Esso non può quindi esser sussunto nell’Io; occorre bensì riconoscergli un valore sopraordinato. Non potendo più chiamarlo “Io”, l’ho definito “Sé”(…).”

Il Sé è differente dall’ethos collettivo (ciò che Freud chiamava super-io) che lo costringe ad adeguarsi senza tenere in considerazione la peculiarità psichica del singolo. La morale individuale, ciò che Bowen chiamerebbe la posizione-io, nasce sempre dal conflitto tra doveri esteriori e doveri interiori. Come scrive Ernst Bernhard (1969)

“il processo di individuazione è accompagnato da una crescente responsabilità individuale (…) sembra proprio che nei momenti decisivi del suo destino l’uomo venga regolarmente esposto ad un conflitto morale, affinché egli , opponendosi ad una posizione etica precedente, passi ad un ethos individuale” (ciò che sarà vissuto fino alle sue estreme conseguenze dal nostro Barone).

Il processo di individuazione potrebbe essere considerato come un qualcosa che porta alla creazione di un individualismo esasperato, seguendo ancora Bernhard, “il nuovo ethos non è individualistico, anzi, al contrario, implica l’inserimento dell’individuo nella collettività , non però in forma di identificazione- il che equivarrebbe alla perdita della personalità stessa- ma come adattamento individuale che permetta al singolo di conservare la sua maggiore o minore differenziazioneÈ anzi proprio la tendenza all’individuazione che opera un equilibrio tra i due fattori.”

Ritroviamo in questo passo il concetto cardine di questo lavoro: differenziazione. Bernhard ne parla in riferimento alla posizione etica del singolo nei confronti della collettività (la società), saltando, per così dire, il primo nucleo sociale con il quale la persona entra in contatto ossia la famiglia. Questa tesina vuole mettere in risalto proprio come l’ethos individuale del singolo debba necessariamente crearsi, in prima istanza, dalla differenziazione dal complesso (mito) familiare.

Mitobiografia (Ernst Bernhard)
Mitobiografia (Ernst Bernhard)

Scrive Jung “l’individuazione è un’unificazione con sé stessi e nel contempo con l’umanità (…) ma indispensabile premessa di tutto questo è la cosciente libertà di scelta e l’autodeterminazione di ognuno(…) chi maggiormente contribuisce al benessere generale è proprio la personalità autonoma.”

Si noti a questo proposito, la vicinanza con le considerazioni di Bowen sull’effetto che esercita la persona differenziata sui membri del proprio nucleo familiare. Come esempio di un tale processo in potenza, è interessante, a questo punto, riprendere sia un passo tratto dalla biografia di Jung.

Nel primo caso Jung parla del padre, pastore protestante e fa delle considerazioni personali sulla sua vita: “in quello stesso periodo (Jung ha dodici anni) fui preso da profondi dubbi su tutto ciò che mio padre diceva. Quando lo sentivo predicare sulla grazia (…)ciò che diceva mi pareva vuoto e trito, come una storia raccontata da chi la conosce solo per sentito dire, senza crederci veramente. Volevo aiutarlo, ma non sapevo come; per di più ero troppo timido per (…)immischiarmi delle sue preoccupazioni personali.”

In questo frammento è possibile scorgere la distanza che viene a crearsi tra il mondo paterno e il figlio, la differenza:

“In seguito, a diciotto anni, ebbi molte discussioni con mio padre, sempre con la speranza segreta di potergli far sapere qualcosa dei miracoli della grazia e così aiutarlo nei tormenti della sua coscienza (…) ma invariabilmente le nostre discussioni ci lasciavano sempre malcontenti, lo irritavano e lo rattristavano. “Sciocchezze -soleva dire- tu vuoi sempre pensare. Non si dovrebbe pensare, ma credere”. Io pensavo “no, bisogna sperimentare e conoscere”, ma dicevo “dammi questa fede”; egli allora si stringeva nelle spalle e si allontanava con aria rassegnata.”

Per quanto riguarda le differenze tra Jung e Bowen, si consideri che il primo è interessato a seguire le fasi del processo di individuazione primariamente, ma non trascurando il relazionale, all’interno dell’individuo, ricorrendo alla considerazione dei simboli dell’inconscio personale e dell’inconscio collettivo.

In Bowen il processo è visto invece sopratutto nella sua forma esterna in termini di relazionalità. Questo orientamento non può tuttavia farci credere che in Jung la relazionalità venga ad essere oscurata dalla prevalenza delle immagini del mondo interiore. Leggiamo a favore di questa considerazione un passo tratto da Psicologia della traslazione (1946)

“il processo d’individuazione ha due aspetti fondamentali: da un lato è un processo d’integrazione interiore, soggettivo; dall’altro è un processo oggettivo, altrettanto essenziale, di relazione. I due aspetti sono inseparabili, anche se l’uno può assumere un rilievo maggiore dell’altro.”

Bowen scrive che la differenziazione completa è praticamente e teoricamente impossibile. Per Jung l’individuazione è una possibilità anche se ovviamente il metro con la quale si misura non può che essere quello del giudizio soggettivo. I più non arrivano ad erigere un ethos individuale in quanto la potenza dell’ethos collettivo è straordinaria. Si consideri che Jung vive in un tempo premediatico anche se intuisce quando scrive che il giornale domina il mondo (1928) come i dettami dell’ethos collettivo troveranno centuplicati i propri condizionamenti attraverso l’introduzione di tv, radio, internet.

La contiguità concettuale è testimoniata invece da questa frase di Bowen: “i termini “definire il sé” o “lavorare alla propria individuazione” sono sinonimi di differenziazione. Uno scopo di questo tipo di terapia è di aiutare l’altro a fare della sua vita un progetto di ricerca.”

Bowen parla di integrazione del Sé, Jung come abbiamo visto pone il Sé a conclusione di un processo di individuazione. Ora tra Jung e Bowen mi sembra di scorgere un ponte che non avevo mai visto prima. Riprendendo un frase di Bowen in cui credo, il compito che si lascerà in eredità alle generazioni future sarà quello di integrare concetti individuali e familiari.

FINE.


Bibliografia

Servizi Jung Italia
Donazione Paypal Jungitalia Puoi contribuire all’uscita di nuovo materiale gratuito che potrò mettere a disposizione per te e migliaia di altri lettori. Il Jung Italia è un progetto personale che porto avanti del tutto volontariamente, e ha fatto crescere e formare migliaia di curiosi, addetti e appassionati alla psicologia.
Articolo precedenteIl libro che Freud rifiutò: “Simboli della trasformazione” di Jung, un cult della psicologia
Prossimo articoloJung e le psicosi: la rivoluzione psichiatrica alla ricerca del “senso” e del significato
Classe 1972. Psicologo psicoterapeuta, ricercatore presso l'Associazione per la ricerca in Psicologia Analitica (A.R.P.A.). Vive e lavora a Cagliari.