Inlinea di massima nulla sembra più ostacolare l’accettazione del pensiero Junghiano. A quanto mi è dato vedere, vi si oppone oggi solo un ostacolo: una corrente politica e sociologica, una tendenza che vede e ricerca sempre più i valori definitivi nei dati collettivi.
Sebbene cioè la generazione che si va formando dimostri un interesse crescente per l’uomo e una maggiore tendenza verso la psicologia e la sociologia, queste due discipline rivolgono oggi la loro attenzione soprattutto al comportamento sociale statisticamente intelligibile degli esseri umani, e in minima parte all’individuo.
Di conseguenza, Jung è pressoché totalmente ignorato o respinto quale rappresentante di un “individualismo borghese” sorpassato.
Questa superficiale identificazione di “individualismo” e “individuazione” non richiede commenti, dovuta com’è semplicemente alla totale ignoranza di quello che Jung intende per individuazione 🔎.

Ciò nonostante, non si può non riconoscere l’esistenza di un vero contrasto che mi sembra degno di maggiore considerazione. Si pone prima di tutto una questione basilare, quella cioè della validità dei metodi statistici quali vengono oggi comunemente usati;
Jung considerava le constatazioni statistiche in campo sociologico e psicologico nello stesso modo in cui oggi si è imparato a comprenderle tramite la fisica moderna, cioè come ‘astrazione mentale’.
Se io ad esempio sostengo che le pietre di questo mucchio misurano in media cinque centimetri quadrati, non commetto, teoricamente parlando, un errore, ma nella realtà dovrei fare lunghe ricerche prima di trovarne una di quella grandezza. Le ‘vere’ pietre sono tutte diverse e [queste] costituiscono la realtà; il resto è un’idea astratta della realtà quale si trova nella mente dell’osservatore. Lo stesso vale anche per tutte le altre affermazioni generali sulla natura dell’uomo; il vero portatore di vita è soltanto il singolo.
Non esiste una “vita” di milioni di persone, bensì milioni di singoli portano la vita; sono essi, in definitiva, la realtà.

Le teorie basate sulla statistica formulano di conseguenza soltanto una media ideale, in cui tutte le eccezioni che tendono verso l’alto e verso il basso sono soppresse e sostituite da una media astratta. Ne risulta così una psicologia o un’antropologia “valida per tutti”, ma che offre un’immagine umana media, astratta, che è stata privata di tutti i tratti individuali.
Un simile procedimento permette la conoscenza scientifica, ma non una vera comprensione dell’essere umano. Di conseguenza, va oggi sempre più sviluppandosi una visione razionalistica, non realistica, del mondo, in cui all’individuo è assegnata soltanto la parte di fenomeno marginale.
“L’efficacia psicologica dell’immagine statistica del mondo – insiste Jung – non va sottovalutata; essa rimuove ciò che è individuale in favore di unità anonime che si ammucchiano in raggruppamenti di massa. Con ciò i singoli esseri concreti sono sostituiti dai nomi delle organizzazioni e, in cima alla scala, dal concetto astratto di Stato… In tal modo la responsabilità morale del singolo cede inevitabilmente alla ragione di Stato. Al posto della differenziazione morale e spirituale dell’individuo si pongono il pubblico benessere e l’aumento del livello di vita.
Meta e senso della vita singola (che è poi l’unica vera vita) non è più lo sviluppo individuale, ma la ragion di Stato, imposta sull’uomo dall’esterno, ossia la messa in atto di un concetto astratto che ha la tendenza di attirare a sé ogni vita.” […]

L’odierna letteratura sociologica insiste nell’affermare che l’interesse del Noi precede l’interesse dell’Io, senza però distinguere tra conscio e inconscio. Ma l’interesse del Noi è soltanto un contenuto della coscienza collettiva, non dell’inconscio del gruppo, e l’interesse dell’Io non è che una piccola porzione conscia di ciò che costituisce un individuo.
Questa definizione non tiene conto dell’inconscio dell’individuo.
(Marie Louise Von Franz – Il mito di Jung, p.243)
«La psicologia moderna ha in comune con la fisica moderna il fatto che il suo metodo riveste un’importanza conoscitiva maggiore che non il suo oggetto. Il suo oggetto infatti, la psiche, è di una varietà, di un’indeterminatezza che le indicazioni che essa dà sono necessariamente difficili o addirittura indecifrabili, mentre le definizioni fornite dal modo di considerarla e dal metodo che ne deriva sono – o almeno dovrebbero essere – grandezze note.

La ricerca psicologica prende le mosse da questi fattori, definiti empiricamente o arbitrariamente, e osserva la psiche alla luce appunto del variare di queste grandezze.
L’elemento psichico appare in tal modo come un disturbo di un modo di comportamento probabile, presupposto dal metodo che è stato adottato di volta in volta. Il principio di questo modo di procedere è – cum grano salis – quello proprio in generale delle scienze naturali.
È chiarissimo che in queste circostanze tutto o quasi dipende dalla premessa metodologica, e il risultato è imposto principalmente da questa premessa.
Certamente il vero e proprio oggetto della conoscenza accampa in una certa misura i propri diritti; ma al tempo stesso esso non si comporta come si comporterebbe, in quanto realtà autonoma, in una situazione naturale priva d’interferenze.
Si è quindi riconosciuto già da lungo tempo proprio in sede di psicologia sperimentale, e soprattutto nella psicopatologia, che una certa disposizione sperimentale non coglie con immediatezza il processo psichico, ma tra questo processo e l’esperimento s’insinua una certa condizione psichica che potremo definire ‘situazione sperimentale’.
Questa “situazione” psichica può in certi casi mettere in forse tutto l’esperimento, in quanto assimila a sé l’organizzazione sperimentale e perfino lo scopo che è alla base dell’esperimento…» (C.G.Jung – Considerazioni sulla Teoria dei Complessi, Opere Vol.8, p.110)
FINE.
