Psicologia dell’Olocausto. Un importante e famoso libro del medico Nathalie Zajde, intitolato “I figli dei sopravvissuti”, edito da Moretti & Vitali, con prefazione del noto etnopsichiatra Tobie Nathan. Nathalie Zajde ha creato i primi gruppi di discussione per i sopravvissuti e i figli dei sopravvissuti della Shoah in Francia. In questo libro ha raccolto 40 interviste condotte con molta sensibilità ai figli dei sopravvissuti. Qui di seguito un’introduzione al suo libro, scritta dall’analista junghiana Carla Stroppa.
Introduzione al libro di
Carla Stroppa
“Anche se i sopravissuti hanno perlopiù evitato di raccontare in modo strutturato il passato ai loro figli, il passato recente, il vissuto traumatico della generazione che ci ha preceduto costituisce una specie di ambiente di vita, a partire dal quale i discendenti dei sopravissuti sono costretti ad orientarsi, per fondare la propria esistenza. Questa origine possiede però una caratteristica del tutto particolare: essa è di natura traumatica ed enigmatica” (Nathalie Zajde)
Chi ha avuto in sorte di vivere esperienze estreme e traumatizzanti che hanno frantumato la percezione dell’identità e della vita, o di essere l’erede di questa memoria traumatica, se “sopravvive” diviene portatore di un drammatico paradosso esistenziale.
Da una parte ha la necessità assoluta di esprimersi e di trovare ascolto in qualcuno che lo accolga, lo rispecchi e lo aiuti a dare senso e coersione a ciò che rimane della sua identità individuale e storica; dall’altra ha l’intima e irriducibile convinzione che nessuno lo potrà veramente capire.
Sicché cerca l’altro da sé con l’autentica necessità di chi si porta in animo il vissuto di una radicale solitudine ed estraneità, ma contepmoraneamente lo nega perché teme di venire nuovamente distrutto.

L’alterità è ricercata e ambita quale possibile polo dialettico di un dialogo necessario, ma nel contempo è temuta e allontanata quale fonte di ritraumatizzazione e di espropriazione da sé. Il “Sopravvissuto” svela e nasconde a un tempo il suo cuore, coinvolge e respinge il suo interlocutore, sollecita la ricerca e l’approfondimento perché ha necessità di ricostrutire una trama esistenziale e di trovare un’appartenenza che allevi il doloroso sentimento di esilio e di separatezza dal mondo che si porta dentro, ma bada bene che questa ricerca non oltrepassi le barriere difensive della sua sopavvivenza.
È l’inferno dei figli dei sopravvissuti della Shoah, eternamente sospesi fra una memoria ancestrale di tragica insostenbilità e un futuro non rappresentabile. Sospesi fra il bisogno di sapere le vicende della loro origine al fine di trovare la matrice specifica della propria identità e quello di dimenticare per non lasciarsi inghiottire da una memoria devastante che potrebbe comrpomettere l’adattamento all’oggi e alla complessità del divenire.

Per rimanere vivi in queste condizioni, occorre, ci dice l’autrice del libro, un “orgoglio smisurato”.
La ricerca di Nathalie Zajde, condotta con grande sensibilità di sentimento e penetrazione psicologica, si focalizza sulla memoria traumatica ereditata dai figli dei sopravvissuti che, proprio perché portano il peso di una drammatica diversità iscritta loro malgrado nel fondo oscuro della loro anima, “non appartengono al mondo dei semplici esseri umani, ma ad un’altra sfera, sicuramente sacra”.
Questo fa di loro i candidati privilegiati per un percorso di trasformazione iniziatica. L’archetipo di morte e rinascita li riguarda profondamente, perché come dice l’autrice “il rito iniziatico ha per obiettivo quello di far passare l’individuo dal semplice stadio di esistenza biologica, di essere vivente, a quello di invidiuo dotato di un’identità riconoscibile da lui stesso e dal gruppo a cui appartiene. Per avere accesso a questa nuova esistenza, l’individuo deve passare attraverso un tempo – il tempo traumatico – di distruzione totale del suo stato anteriore”.

Benché il libro abbia per oggetto la condizione ebraica e ne sottolinei giustamente l’irriducibile specificità dovuta all’universo di senso collegato alla tradizione e al contesto storico-culturale, abbiamo pensato di collocarlo in questa collana ad orientamento junghiano che accoglie contributi aperti ad una dimensione antropologico-culturale.
L’autrice insiste sull’impossibilità di rinchiudere all’interno di teorie riduttive una condizione dell’anima complessa e pluristratificata e conduce le interviste ai figli dei sopravvisuti in modo tale da consentire all’anima stessa di prendere parola.
Questo corrisponde perfettamente allo spirito junghiano che auspica un approccio alla psiche aperto, libero da pregiudizi teorici e trasversale. Inoltre, in senso lato, la condizione di “ebreo errante” può essere assunta a metafora di una condizione dell’umana sofferenza che riguarda tutti coloro che hanno subìto traumi tali da aver spezzato il loro senso di identità.

La “sindrome del sopravvisuto” così come viene rappresentata da Nathalie Zajde rispecchia l’anima di tutti coloro che hanno dovuto passare attraverso espereienze di profondo orrore e di negazione di sé, di qualsivoglia origine e natura.
La clinica e la letteratura che si riferisce alle nevrosi traumatiche ne sono testimonianza. Frattura intrapsichiche, dolore per una sorta di esilio dal mondo, depersonalizzazione, solitudine, senso continuo di minaccia, vuoti di memoria, abbandono, ansia e angoscia continui, appartengono a tutti coloro ai quali la vita per qualche ragione ha negato la formazione e il riconoscimento dell’identità.
Per gli altri rimane un mistero e questo radicalizza il senso di estraneità del “sopravvisuto” che spesso, non potendo rappresentare se stesso in relazione all contingenze del mondo che lo circonda, sviluppa una acuta sensibilità per lo sfondo mitico della propria esistenza e cerca di inesso un rispecchiamento più profondo e convincente.

La percezione dello sfondo mitico della psiche da parte dei figli dei sopravvissuti, il riferimento al lignaggio ancestrale nella costituzione dell’identità e alla necessità iniziativa, consentono di collocare la riflessione in ambito junghiano, anche se ciò esula completamente dalle intenzioni dell’autrice. A questo proposito è molto pertinente il concetto di identità a doppia entrata da lei proposto.
“È necessario considerare contemporaneamente gli avvenimenti propri di ogni insieme culturale definito, che costituisce una parte della diaspora plurale, e la idmensione astorica, quella che riunisce tutti gli ebrei nella medesima origine, nella medesima affiliazione, identificando ogni ebreo come un “discendente di Giuseppe , figlio di Giacobbe, figlio di Isacco, figlio di Abramo” (Nathalie Zajde)
Lignaggio ancestrale e dimensione astorica si riconnettono alla nozione di inconscio collettivo e “l’identità a doppia entrata” colloca la riflessione in un processo fluido che intreccia vari modelli di lettura e in partioclare il modello introiettivo del pensiero psicoanalitico con quello dinamico acausale della psicologia analitica.

Per Jung l’identità non può essere spiegata del tutto ricorrendo alle cause rintracciabili nella vita infantile, ma di dispiega piuttosto in un processo complesso che include l’affiorare nella coscienza della realtà archetipica e il suo incarnarsi nel tempo storico. È in questo modo che le sfere del sacor, dell’artistico, del culturale inteso come spessore dell’anima, entrano nella vita quotidiana e le danno senso e prospettiva.
Il lavoro di Natahlie Zajde è prezioso non tanto per le risposte che offre, quanto per le domande che apre, per il gioco della mente e del cuore che dischiude. Questo aspetto permane anche quando una certa preoccupazione metodologica, a tratti forse eccessiva, mette provvisoriamente da parte la profondità e l’ampiezza di prospettiva suggerite della ricerca, che tuttavia rimane viva e complessa, capace di coinvolgere il lettore e di sollecitarlo a una riflessione fertile, di largo respiro.
– di CARLA STROPPA, analista junghiana
FINE.
