Titanismo: psicologia di un mito arcaico potenzialmente pericoloso oggi?
Ospito oggi un articolo scritto da uno psicoterapeuta junghiano che già vi ho presentato qui attraverso un suo libro ed evento di sandplay therapy: Mario Mengheri (membro IAAP)
Prima di lasciarvi al suo articolo vi segnalo qui sotto uno dei suoi libri pubblicato dalla FrancoAngeli che parla, oltre che di psicologia del profondo, anche di vita, narcisismo e anoressia.
BUONA LETTURA!

Il ritorno dei titani:
un mito arcaico sta pericolosamente emergendo
(di Mario Mengheri)
“Vagando tra due mondi, uno morente,
e l’altro impotente a nascere.
Per vivere nel tempo fra gli dèi che son fuggiti,
e gli dèi che non sono ancora.”
(M.Arnold, 1955)
Nella nostra cultura prevalentemente scientista e tecnologica è giunta la crisi. È una crisi globale, che interessa il mondo intero nelle sue diverse manifestazioni: l’ecologia, l’economia, la medicina, l’educazione la cultura. I valori e i ruoli stessi dell’uomo, in primis, vivono in uno stato di profondo tumulto.
Per quanto ci sarà concesso di com-prendere con questo scritto osserveremo grazie al mito qualcosa di ciò che ci tocca da vicino e che il linguaggio della logica non riesce ad esprimere a pieno.
La nostra interpretazione del mito si rifà alla tesi di Jung per il quale i miti sono «in primo luogo manifestazioni psichiche che rivelano l’essenza dell’anima» (Albini Bravo, Devescovi, 2012; Jung, 1934-1954, p. 5).
Porre attenzione a ciò che è collettivo è una specificità del pensiero junghiano e, in un’ottica di promozione e tutela della salute, stimola e sollecita il nostro sguardo a osservare e cogliere i movimenti profondi della psiche per un sempre maggiore allargamento del farsi conscio dell’inconscio.

Il termine “globale”, riferito alla crisi attuale, ci riporta a quel senso dell’enorme che, condividendo con Hillman (1999), è segno dell’assenza degli déi e che senza il benevolo governo della divinità, l’onnipotenza, l’onniscienza e l’onnipresenza diventano esse stesse déi. Poiché non ci sono più luoghi nei quali gli dèi possono manifestarsi ed essere onorati, la loro potenza è migrata nella materia del corpo e da là si manifesta attraverso i sintomi fisici e le malattie. In altre parole, senza gli dèi tornano i Titani [1].
«Il nome TITANI, con cui noi li definiamo, ha designato per lunghissimo tempo la divinità del Sole e pare che originariamente fosse l’alto titolo attribuito agli dèi del cielo, ma agli dèi del cielo molto antichi, non ancora assoggettati ad alcuna legge e selvaggi. Per noi essi non erano divinità cui si attribuisse culto, eccettuati forse Crono ed Elio, […] che qua e là avevano i loro culti. Essi erano invece dèi che avevano parte soltanto nella mitologia. Tale parte è sempre quella dei vinti […] Questi vinti portavano in sé i caratteri di una generazione maschile più antica, di antenati, le cui qualità pericolose si ripetono nei discendenti» (Kerényi, 1963, p. 31).
E ancora ci dice Lopez-Pedraza:
«I tempi titanici possono vedersi, dunque, come un periodo di transizione tra l’uomo primitivo e l’uomo colto, civilizzato, un periodo durante il quale non esisteva né il rituale, né il culto dell’uomo primitivo, né l’immaginazione antropomorfa ben definita dell’uomo molto colto e religioso» (López-Pedraza, 1987, p. 67).
López-Pedraza colloca, il tempo titanico tra il prima e il dopo la cultura e sottolinea che esistono «comportamenti strani e patologie che possono essere capiti unicamente in termini di titanismo» (Albini Bravo, Devescovi, 2012); vedi le malattie autoimmuni, l’anoressia e il sempre più presente narcisismo.
Nel mondo dei titani non ci sono leggi, non c’è ordine né limiti. È dallo smembramento di Dioniso che nasce l’essere umano che quindi non può che possedere una parte titanica, la quale è pronta ad aggredirlo e a prendere le redini della sua psiche, rendendolo patologico, borderline, in alcuni casi, nell’apparenza “normale” (disponibile, seduttivo, affettuoso fino ad apparire apparentemente passivo) come mostrano inizialmente nelle relazioni, alcune forme maligne di narcisismo.
Un aspetto daimonico inquietante, che non ci si aspetterebbe di trovare, che è, invece, diffuso come una piaga sociale, è l’ipertrofia della volontà (Albini Bravo, 2010, pp. 85-92).
La volontà di un Io che, scisso dall’inconscio, si rivela essere un demone interno alla stessa coscienza, a una coscienza unilaterale, titanica e distruttiva, che non può cessare di volere.
✍️ Sulla volontà leggi: Il falso mito del “volere è potere”. Psicologia di un’inflazione moderna.

Questa “sindrome dei confini” che immaginiamo non si siano chiusi e definiti al momento giusto, riguarda la distinzione fra i tempi (fra il passato, il presente e il futuro), fra le persone (fra i figli e i genitori), fra gli umani e gli oggetti e, ancora, fra gesto e parola e fra l’Io e gli altri complessi. Ma puntare alla grandezza senza ricorrere all’antidoto della sensibilità è un grave rischio.
Nella mitologia c’è un evento che richiama la nostra attenzione su uno specifico bisogno di attivazione della sensibilità e di cura: Zeus insieme agli altri dèi deve, prima che le cose abbiano inizio, sconfiggere i Titani. Deve insomma mettere a tacere il gigantismo e il bisogno di continua espansione, deve circoscrivere il mondo e dargli dei confini e per farlo deve “sposare Metis” (saggezza o misura) e accoppiarsi con Mnemosyne, madre delle Muse, patrona delle arti e delle varie sensibilità.
È in questa ottica di ricerca e di potenziamento della sensibilità che si pone e va collocata la nostra riflessione, la quale, attraverso una rilettura mitica, volge lo sguardo alle strutture archetipiche che sono alla base delle numerose psicopatologie di oggi, per offrire una restituzione di senso e con esso nuove opportunità trasformative e di cura.
Lo studio del mito e dell’immaginario mitologico, come accennato, è uno dei pilastri alla base della psicologia analitica di Carl Gustav Jung. Egli comprese che la nostra eredità mitica rappresenta l’espressione collettiva dell’esperienza archetipica accumulata dall’intera umanità e i miti sono le finestre attraverso cui noi possiamo osservare gli strati più profondi della psiche individuale e collettiva.

Gli “impulsi” finalistici presenti nella psiche umana richiedono che anche i nostri miti possano evolvere per mantenere un costante contatto e risonanza con l’evoluzione della nostra stessa vita psichica. Per questa ragione le immagini archetipiche, che popolano le diverse fasi dei nostri drammi individuali e collettivi riguardano non solo le esperienze del passato, ma svolgono una precisa funzione prospettica, proiettiva, evolutiva, indicandoci la strada verso il futuro.
Nella sua autobiografia, Jung scrive:
«Avevo spiegato i miti dei popoli del passato; avevo scritto un libro sull’eroe, sul mito nel quale l’uomo è vissuto da tempo immemorabile. Ma qual è il mito nel quale gli uomini vivono oggi? La risposta poteva essere: “Nel mito cristiano”. “Vivi tu in esso?”, mi chiedevo, “Se devo essere sincero, no! Non è il mito in cui vivo”. “Allora, non abbiamo più alcun mito?”, “No, evidentemente non ne abbiamo più nessuno”. “Ma allora qual è il tuo mito? Il mito nel quale vivi?”. A questo punto il dialogo con me stesso diventava sgradevole, e smettevo di pensare. Ero giunto a un limite» (Jaffé, 1961, p. 213).

Jung e Arnold sembrano suggerirci, prudentemente, che il nostro compito è quello di apprendere a sostare in uno stato di forte tensione incubativa all’interno di uno spazio liminale e attendere, affinché l’inconscio possa produrre a sua volta qualcosa di nuovo perché, come suggerisce Jung, se il mito dell’eroe è morto e il mito cristiano sta svanendo, esisterà un vuoto che inevitabilmente prima o poi dovrà essere colmato da una nuova configurazione mitica.
Jung si è confrontato seriamente con queste domande che ritroviamo anche nelle parole del poeta e critico letterario inglese Matthew Arnold poste in incipit a questo scritto:
viviamo nel “tempo tra”, un luogo e un tempo liminale tra vecchi miti che si sono sbiaditi e nuovi miti, che devono ancora emergere.
Tuttavia ci sono prove già sufficientemente convincenti circa l’inadeguatezza e la pericolosità di un’attesa puramente passiva e tentennante. Penso che l’atteggiamento di Jung, inizialmente di prudente curiosità, oggi non possiamo più permettercelo. Incombente è l’emersione di istanze psichiche numinose o dèi minaccianti che nella cultura e coscienza collettiva stanno avanzando per occupare il vuoto psichico lasciato libero dall’assenza di mito.
Quantunque il vuoto sia uno status da conquistare e con cui misurarci per far germogliare consapevolezza e tendere al benessere, va detto che nel tempo titanico il vuoto è mancanza di limiti, un’onnipotenza dove particolarmente deficitaria è la funzione sentimento. Limitazione che svuota di significato, come rileva López-Pedraza, anche le altre tre funzioni della psiche (pensiero, intuizione, sensazione).
Ma che cosa hanno a che fare i Titani con le riflessioni di Jung, di Matthew Arnold e con la condizione di potenziale pericolo nel vivere in un tempo tra due miti, uno morente, e l’altro impotente a nascere?
Un breve sguardo a un mito di creazione orfico[2] può donarci un’indicazione più chiara.

Prima del tempo dei possenti dèi e dee dell’Olimpo, e prima ancora del tempo della creazione degli esseri umani, abbiamo visto, citando Kérenyi, come la terra fosse stata governata da una stirpe di spietati giganti, i Titani, appunto. Sappiamo come vanno le storie e che i Titani comparvero quando la luce emerse dalle tenebre del caos e i cieli, la terra e il mare erano stati creati.
Questi giganti erano così gelosi del loro potere che il grande Titano Cronos [3], quando realizzò di essere il padre di una nuova razza di dèi che avrebbe potuto minacciare il suo potere unilaterale, decise di eliminarli, inghiottendo la sua intera progenie non appena fosse stata generata. Ma, nonostante questo estremo tentativo di annientare ogni potenziale concorrente, l’ultimo suo figlio, Zeus, sopravvisse e lo costrinse a rigettare tutti i suoi fratelli. Poco dopo, scoppiò tra loro una spietata guerra che spinse i giovani dèi e dee contro la stirpe più anziana di Titani.
Alla fine, i Titani furono sconfitti ed esiliati ai “confini del mondo”, in una zona lontana nello spazio e nel tempo, tenebrosa, sotterranea, nel Tartaro. I nuovi dominatori dell’universo, gli dèi, con a capo Zeus, presero dimora sul Monte Olimpo.
Il ricco e complesso tessuto del nostro patrimonio mitologico occidentale scaturisce da questo mito a partire proprio da un mondo “pre-umano” governato dai Titani.
Un altro, particolare, mito ritrovato negli scritti orfici, il mito di Dioniso Zagreus, racconta la storia del rapporto tra i Titani e il giovane Dioniso, figlio favorito di Zeus e di Persefone.
Un giorno, poco tempo dopo la loro sconfitta, i Titani, furiosi per la cacciata dall’Olimpo e l’esilio nel Tartaro, tendono un’imboscata a un curioso e ancora molto giovane Dioniso all’interno di una remota grotta, nascosta all’occhio vigile del padre Zeus. I Titani attaccarono il giovane Dioniso, lo smembrarono e ne divorarono le carni. Zeus, saputo dell’agguato colpì i Titani con la folgore e li ridusse in cenere fumante. Fu da queste ceneri che Zeus creò l’uomo e tutta l’umanità.
L’uomo perciò è costituito da una componente titanica e da una dionisiaca, espressione delle due potenzialità archetipiche molto differenti che abitano il paesaggio psichico, i nostri movimenti psichici.
Il mitologo Walter Friedrich Otto dice a proposito del mito di Dioniso-Zagreus che «gli orfici incorporarono questo mito nei loro insegnamenti e trovarono in esso un misterioso significato per il destino dell’uomo» (Otto, 2005).
Gli antichi poeti orfici compresero che il destino dell’uomo è determinato dall’equilibrio psichico di questa doppia natura, titanica e dionisiaca, dove la dominanza dell’uno e la messa al bando dell’altro polo conduce ad una pericolosa quanto distruttiva inflazione e unilateralità, quell’unilateralità che, ora strisciante e subdola, si nutre del vuoto liminale, che l’assenza di mito ha determinato nella psiche collettiva.

E così, alla domanda di Jung e Arnold, che si interrogavano su chi avrebbe colmato lo spazio restato vuoto dopo la fuga degli dèi dall’Olimpo, si può rispondere che oggi è la fredda, arrogante minaccia del Titano, che ritornato cerca di imporsi trionfalmente.
Il suo ritorno si preannuncia con la vittoria del letteralismo sull’immaginale, del razionale sopra l’estetico, dell’arroganza (hýbris) sopra l’eros, del fondamentalismo sulla tolleranza, dell’isolamento sopra la relazionalità, del pessimismo sopra la speranza, del bisogno sopra il desiderio, della demonizzazione sopra la comprensione e, last but not least, della tecnica[4] sopra l’umano.
L’evanescenza dei limiti e l’imperfetta chiusura dei confini ci stanno trascinando alla dimensione dell’illimitato, dello stile irriflessivo, dell’agito inconsapevole e dell’illimitato desiderare. Cifra che appartiene e caratterizza proprio la dimensione del Titano e che in sé ha la possibilità di infettare tutti gli ambiti archetipici. Evidenti e tragiche sono le ferite già inferte nel nostro tempo. Irrevocabile e provvidenziale è l’incoraggiamento verso una nascente consapevolezza, che James Hillman chiama capacità “di vedere dentro, di vedere attraverso” i substrati psicologici e mitici di ogni accadere.
Estrema è la preoccupazione di tutelare la vittima più preziosa della furia distruttiva Titanica: la nostra psiche, l’Anima, la nostra anima in tutto il suo spontaneo, immaginifico, erotico splendore.
In questo processo la psicoanalisi è preziosa risorsa e devota alleata per educare, orientare, lo sguardo. La sua influenza sull’arte, in particolare sul cinema è da sempre determinante. Numerose sono le teorie post-junghiane che sostengono l’idea che le primordiali strutture mitiche operanti nell’immaginario collettivo abbiano potuto trovare anticipatamente espressione e visibilità proprio attraverso il cinema.

Nel 1997 uscì il celebre film Titanic[5] in un momento in cui la situazione psicologica, politico-sociale, culturale era ribollente sotto la superficie. Il film offriva e offre uno sguardo straordinariamente efficace e anticipatore, per chi è in grado o vuole “vedere” come operino le forze mitiche, numinose, che si manifestarono successivamente in risposta alla crisi con tragici eventi, tra i quali il più emblematico il crollo delle Torri Gemelle dell’undici settembre.
Il film è una narrazione della nota e drammatica storia di una nave da crociera transoceanica, il Titanic, considerata inaffondabile, incarnazione della suprema e superba conquista tecnologica del tempo, nonché potente simbolo del potere raggiunto dall’uomo moderno. Fu proprio durante il suo viaggio inaugurale che l’“inaffondabile” Titanic si avviò inesorabilmente e inconsapevole verso la sua tomba d’acqua a causa di un’imprevista collisione con un gigantesco iceberg.
In un articolo intitolato “Il riaffondamento del Titanic” il paroliere e compositore americano Glen Slater utilizzò proprio questo film per descrivere la natura pericolosa e minacciosa delle forze titaniche che abbiamo culturalmente accumulato, e avanzò l’idea che questa nave condannata all’affondamento ha rappresentato in realtà lo strapotere e l’arroganza della tecnica e il suo dominio non solo sulla natura, ma anche sull’uomo, sulla realtà poetica, relazionale, estetica e immaginale della vita interiore.

Il Titanic incarna l’immagine archetipica dell’ “invincibile”, che nella nostra cultura titanica e nella coscienza collettiva è ciò che ci spinge a procedere senza pietà e senza posa ignari e indifferenti nei confronti di tutto ciò che sta “avvicinandosi” sotto la superficie: l’iceberg, rappresentazione simbolica della furia titanica, mitica collettiva verso cui navighiamo in rotta di collisione.
La coscienza titanica evoca un’immagine fredda, grigia, un senza forma[6], umanamente distaccata da sé e dall’altro, e metaforicamente rimanda alle immagini dei tanti ponti in acciaio e al corpo imponente del transatlantico, che muovendosi con disumanizzante hýbris e aggressività, rappresenta l’assoluto e sacrilego orgoglio, l’inflazione, la grandiosità e un’urgenza fuori controllo caratteristiche del Titano.
Se consideriamo il Titanic, come un’immagine costellata nella psiche collettiva americana e non solo, abbiamo poco da meravigliarci su chi possa trovarsi a bordo e su chi possa essere al suo comando.
Stimolati dal mito di Dioniso-Zagreus, possiamo immaginare a bordo un congiungersi di due energie, di forze contrapposte: le dinamiche mitiche e le nostre dinamiche interne, psicologiche operanti a bordo del personale vascello culturale, due immagini archetipiche: il Titano Prometeo[7] e il Dioniso Olimpico, figlio prediletto di Zeus.

Prometeo come immagine archetipica appartiene alla stirpe dei Titani e rappresenta il trionfo e l’onnipotenza della tecnica. Suo unico scopo è l’autoreferenzialità, l’ambizione, la competitività, la funzionalità, l’ostentata razionalità. Una coscienza prometeica, infatti, valuta e concepisce solo la condizione empirica, letterale dell’esistenza e, come tale, incarna un atteggiamento svalutante il potenziale divino, l’origine olimpica dell’umanità. Subordina le potenzialità dell’inconscio, negando sostanzialmente la realtà del mondo interiore.
Hillman afferma che «senza gli dèi tornano i Titani […] I Titani non hanno limiti perché non sono immaginati: sono piuttosto delle astrazioni» (Hillman, 1999, pp. 59-61), che l’identificazione con l’archetipo di Prometeo e la sua conseguente inflazione rappresenta una coscienza culturale, che pensa solo al futuro, ha perso la sua connessione con il passato, con la storia e soprattutto con il mondo infero con conseguente egocentrismo e iperattivismo, a cui segue il fanatismo vitale della cultura occidentale.
Anche Raphael López-Pedraza, sulla scia di Hillman, sottolinea che: «La civiltà occidentale sta diventando sempre più titanica» (López-Pedraza, 1990, p. 13). Egli mette in relazione il titanismo con l’intellettualismo, con «l’abisso tra conoscenza e ciò che noi conosciamo in noi stessi: l’anima”» (ivi, p. 55).
È il titano Prometeo che sta ora governando e guidando la nostra nave psichica collettiva e lo fa con totale disprezzo per le conseguenze derivanti dai suoi comportamenti arroganti, distratti, frettolosi.

Il solo antidoto contro le tossiche, sulfuree e soffocanti forze titaniche, che ci minacciano, si trova nell’evocare e riattivare un pieno riconoscimento della nostra natura e cultura dionisiaca.
Ma non tutto è perduto, come narra il film. Mentre Prometeo governa i ponti superiori, l’ebbro, invasato, infiammato dalle passioni, Dioniso, si aggira nelle “viscere” della nave.
Dioniso rappresenta la nostra natura oscura, isterica[8] e imprevedibile. Egli è sia causa che liberatore dalla follia e, come dio della vita psicologica, dio della morte e della rinascita è chiamato il “nato due volte”; «egli è il Dio antagonista dei Titani; il dio delle emozioni; il dio più represso nella cultura occidentale; il dio delle donne, del vino, della tragedia, e il dio che possiede una forte connessione con la morte» (López-Pedraza, 2000, p. 13).
Qual è dunque il fil rouge che congiunge Jung, Arnold, gli Orfici, Hillman, il mito e il film? In qualche modo tutti ci narrano dell’esistenza di una possibilità, di una via salvifica e riparativa.
L’immagine dello spesso scafo del Titanic, l’inaffondabile, violato, lacerato, squarciato dalla collisione con qualcosa di tremendamente più forte che si trova sotto la sua superficie, rimanda metaforicamente all’immagine dello scontro con forze potenti, ignote e numinose che ci appartengono, che abitano le profondità del nostro inconscio individuale e collettivo. Lo scontro è terribile e il Titanic, l’invincibile, affonda. La riflessione è che anche il mondo prometeico scontrandosi con analoghe forze è destinato a fallire in uno scontro impari, dove è incapace di prevalere sulle forze dell’inconscio, della natura, invisibili quanto potenti. Solo abbandonando l’invincibile Titanic, le energie dionisiache possono sciogliersi dal ponte, immergersi nel regno liquido dell’inconscio e sopravvivere.
È interessante rilevare che il personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio è colui che trasporta il dionisiaco per tutto il film. Egli sperimenta una morte letterale a cui sopravvive la sua anima, interpretata da una stupenda Kate Winslett.
Questa narrazione, simbolicamente, ci dice che l’energia archetipica dionisiaca che vive in noi può riprendere il dominio sulle potenze titaniche distruttive proprio attraverso la natura del “femminile”.

La tragedia Titani/Dioniso è una lotta nefasta, i cui effetti si spandono come una coltre nebbiosa che ammorba accecando la nostra cultura a livello politico, sociale, educativo, religioso, scientifico, etc. Ma un ritorno del mito con l’emersione di un nuovo mitologema può orientare l’uomo moderno o post-moderno al cambiamento, all’incontro, al rapporto con sé e con l’altro da sé.
Jung numerose volte ha trovato occasione di ripetere che il mondo è tenuto insieme da un filo sottile e che il pericolo che si spezzi è costituito proprio dall’uomo stesso. Asserisce, inoltre, che l’uomo non può sopportare a lungo una vita priva di senso e il proprio annullamento, e che si instaurerà una reazione contro questa dissociazione collettiva.
Nell’attesa, vigili e consapevoli, ci prepariamo, fiduciosi, a cambiare rotta e a evitare o almeno mitigare l’impatto con il numinoso che, in gestazione dentro ciascuno di noi e nella psiche collettiva, continua minacciosamente ad avanzare.

Conclusioni
È tempo di ritornare alla saggezza degli antichi consapevoli che la polarità creazione/distruzione è l’esistenza stessa della nostra realtà e che interfacciarci con le potenze transpersonali può consentire di coglierne le insite, mirabili, implicazioni evolutive.
Il mito può esserci guida in questa ricerca. Non solo è rivelatore dell’inconscio in quanto struttura celata, ma è anche progetto, poiché più che al già-dato è relativo al non-ancora ed è formidabile attivatore di dialogo fra le polarità che ci costituiscono. Dialogo quanto mai opportuno, non tanto per individuare soluzioni, quanto per scegliere liberamente il proprio destino avendo presenti le responsabilità etiche nei confronti del bene comune e di se stessi.
I miti, condividendo con Hillman, non fondano, aprono. E se sapremo aprirci e riconnetterci al grande insegnamento che giunge all’anima attraverso il mito, potremo riscoprire il nostro Oriente e attingere, con mitezza congiunta a malinconia, alla fonte da cui siamo scaturiti.
Attraversati gli impervi territori tra la forma e l’ordine, da una parte, e l’oscuro impulso creativo dall’altra, ci sorprenderemo a ritrovare il senso della vita.
FINE.
BIBLIOGRAFIA
– ALBINI bravo c. (2010), (a cura di), La psiche nei miti greci. Riflessioni di un gruppo al lavoro, Roma.
– ALBINI bravo c., DEVESCOVI C., (2016), Borderline, la malattia dei confini cifra di una cultura sofferente, www.gruppoilponte.it, Il Ponte – Gruppo di Lavoro in ambito Psicologico e Psichiatrico, Roma. Consultato il 15/10/2018 su http://www.gruppoilponte.it/2016/12/01/borderline-la-malattia-dei-confini-cifra-di-una-cultura-sofferente/.
– ARNOLD M. (1909), Stanzas From The Grande Chartreuse, in The -Poems of Matthew Arnold, Oxford University Press, London, New York.
– CORREALE A. e Coll. (2009), Borderline. Lo sfondo psichico naturale, Borla, Roma.
– GREEN A. (1990), La folie privée; ed. it.: Psicoanalisi degli stati limite. La follia privata, Raffaello Cortina Editore, Milano 1991.
– HILLMAN J. (1972), Il mito dell’analisi, Adelphi, Milano.
– HILLMAN J. (1979), The Dream and the Underworld, Harper & Row, New York; ed. it.: Il sogno e il mondo infero, Edizioni di Comunità, Milano 1984.
– HILLMAN J. (1999), Politica della bellezza, Moretti e Vitali, Bergamo.
– JAFFÉ A. (1961), Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung, BUR Rizzoli, Milano.
– JUNG C. G. (1934-1954), Über die Archetypen des kollektiven Unbewussten; ed. it.: Gli archetipi dell’inconscio collettivo, in Opere, vol. IX, tomo 1, Bollati Boringhieri, Torino1980.
– KERÉNYI K. (1963), Gli dèi e gli eroi della Grecia, Il Saggiatore, Milano.
– LÓPEZ-PEDRAZA R. (1987), Sul titanismo. Un incontro fra la patologia e la poesia, «L’Immaginale», n. 8, anno 5, Lecce, pp. 67-73.
– LÓPEZ-PEDRAZA R. (1990), Cultural Anxiety, Daimon Verlag, Einsiedeln (Switzerland) 2012.
– LÓPEZ-PEDRAZA R. (2000), Dioniso in esilio. La repressione del corpo e delle emozioni, Moretti & Vitali, Bergamo.
– OTTO W. F. (2005), Dioniso. Mito e culto, Il Nuovo Melangolo, Genova.
– SEARLES H.F. (1986), My work with borderline patients, ed. it. Il paziente borderline, Bollati Boringhieri, Torino 1988.
Note al testo
[1] I Titani, (sei maschi e sei femmine) erano i figli e le figlie di Urano (Cielo) e di Gea (Terra). Condotti da Crono, avevano deposto il loro padre e governavano l’universo. Più tardi, a loro volta, furono deposti da Zeus e confinati nel Tartaro. Alcuni fra i discendenti dei titani portano nomi a noi familiari: Prometeo, Atlante, Ecate, Selene, ed Elios. Fu soprattutto nel movimento romantico che i titani e i loro figli vennero a simbolizzare gli eroici sforzi dell’uomo contro il fato e contro gli dei. Il poeta Shelley, che affermava avere “una passione per riformare il mondo”, trasformò Prometeo in un eroe. Il suo Prometeo scatenato è pieno di magniloquenza idealistica contro il cielo e glorifica i tentativi di assalire ed invadere i cieli e sfidare il destino. Il titanismo, quindi, è sinonimo di auto-glorificazione e considera virtù ogni tentativo di realizzare l’impossibile.
[2] L’Orfismo è quel movimento religioso sorto in Grecia presumibilmente verso il VI secolo a.C. intorno alla figura di Orfeo. Questo mito introduce nella grecità una via ascetica e purificatoria, fondata sulla credenza nella reincarnazione e nella necessità di un tragitto di progressiva liberazione dalla prigione della materia per ricongiungersi con la propria essenza divina.
[3] Crono (greco antico Κρόνος, Krónos, per i latini Saturno) è il più giovane dei titani figlio di Urano (Cielo) e di Gea (Terra), è colui che accoglie l’invito della madre a liberarsi del padre e lo evira. Urano giaceva costantemente su di lei impedendo ai figli concepiti di uscire dal suo grembo. Crono evira il padre Urano con un falcetto fabbricato dalla madre Terra dal proprio interno e getta l’organo amputato nel mar Egeo (dalla cui schiuma nascerà Afrodite) e prende il posto del padre Urano alla guida del mondo; si appropria del potere paterno. Crono scaccia poi i fratelli Ciclopi ed Ecatonchiri e li confina in un altro mondo, nel Tartaro. In seguito sposa la sorella Rhea, con la quale genera i principali dei del Panthéon greco. Urano e Gea, genitori dei due fratelli Crono e Rhea avevano però predetto (o maledetto) a Crono che sarebbe stato a sua volta detronizzato da uno dei suoi figli. La storia si ripete. Allora per evitare di perdere il potere come era capitato a suo padre Urano (spodestato da Crono stesso), il titano Crono prende a divorare i piccoli figli via via che, sua moglie Rhea li partorisce. Nascono Demetra, Era, Estia, Ade e Poseidone, tutti divorati appena nati. Ma alla nascita del suo terzo figlio, Zeus, qualcosa accade. Zeus viene alla luce sul Monte Liceo, in Arcadia (o secondo altre versioni a Creta, dove Rhea era fuggita precedentemente). Al padre Crono al posto del figlio appena nato viene ingannevolmente consegnata avvolta in fasce una pietra. Zeus è salvo e, dopo esser stato gettato nel fiume Neda, viene affidato alla madre Terra. Secondo altre versioni, Zeus è affidato alle cure delle ninfe, in una caverna del monte Ida. Zeus, una volta cresciuto, somministra a suo padre Crono un veleno che gli farà vomitare tutti i figli, i suoi fratelli, che aveva ingoiato in precedenza. E, dopo una guerra intrapresa insieme ai fratelli liberati, Zeus riesce a vincere il padre Crono, a rinchiuderlo e ad affidarlo alla custodia degli Ecatonchiri, per l’eternità.
[4] La tecnica e la follia sono oggi polarità opposte (ma spesso circolari) di un sentire sociale caratterizzato, da una parte, dalle possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico e, dall’altra, dall’assenza di una progettualità che metta al centro l’umano. Noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, e ancora non ci rendiamo conto che il rapporto uomo-tecnica si è capovolto. La tecnica non tende ad uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona e basta. Se prima l’uomo era posto al centro dell’azione, oggi l’uomo è la materia prima più importante, è ciò di cui la tecnica si serve per funzionare. L’etica, nell’età della tecnica, celebra tutta la sua impotenza, perché controlla solo le intenzioni degli uomini, non gli effetti delle loro azioni.
[5] Come è noto, il Titanic lasciò l’Europa alla volta di New York l’11 aprile 1912 e affondò solo pochi giorni dopo, il 14 aprile, dopo aver urtato un iceberg. Il mito del Titanic iniziò persino prima che la nave affondasse: all’epoca era ritenuta la nave più sicura del mondo, i giornali ne parlavano soltanto in maniera eccellente, descrivendola in articoli ricchi di superlativi, ma subito dopo l’affondamento coloro che avevano prenotato il viaggio cambiando poi idea, spiegarono questo cambiamento come una premonizione che la nave fosse stregata.
Trama del film: ci troviamo nell’Oceano Atlantico: l’esploratore Brock Lovett (Bill Paxton) è alla ricerca di un prezioso diamante, il Cuore dell’oceano, gioiello dell’epoca di Luigi XVI, che si ritiene affondato con il transatlantico Titanic. Durante le ricerche la sua équipe rinviene un ritratto di donna con al collo il prezioso monile: è Rose Calvert (Gloria Stuart), una signora ormai ultracentenaria che gli racconta del suo viaggio a bordo del più grande transatlantico del mondo. Si torna così al 10 aprile 1912, quando il Titanic salpa da Southampton (Inghilterra) per il suo viaggio inaugurale verso New York. La giovane Rose (Kate Winslet) è all’epoca un’infelice ragazza aristocratica che viaggia in prima classe con la dispotica madre Ruth Dewitt Bukater (Frances Fisher) e il fidanzato (che le è stato imposto) Caledon Hockley (Billy Zane). In un momento di crisi Rose tenta il suicidio, ma quando sta per gettarsi dalla poppa della nave viene tratta in salvo da Jack Dawson (Leonardo Di Caprio), un giovane artista giramondo che viaggia in terza classe grazie ai biglietti vinti a una partita di poker. L’iniziale complicità tra i due arriva a sfociare in una relazione clandestina. La loro storia però, oltre che osteggiata dal fidanzato ufficiale di lei, viene travolta dalla più grande tragedia navale di tutti i tempi: l’affondamento dell’“inaffondabile” Titanic. Rose, dopo che si rifiuta di salire a bordo della scialuppa di salvataggio con la madre, decide di affrontare il destino insieme a Jack. I due affondano insieme alla nave, ma riescono a tornare a galla ed a afferrare un pezzo di legno, nella speranza che arrivino i soccorsi. Poco dopo Jack muore per assideramento e lei fa fede ad una promessa che gli ha fatto prima di morire; quella di sopravvivere il più possibile. Infatti Rose afferra un fischietto e attira l’attenzione di una scialuppa di salvataggio, e dopo viene caricata sulla nave Carpathia, in cui confessa ad un membro dell’equipaggio di chiamarsi Rose Dawson.
[6] È la forma che permette di sopravvivere all’elemento titanico. Ogni cosa che non ha una forma cade nell’ambito del titanico, ed il titanico è quello che ci spinge all’agito. Dioniso è una possibilità non di abbattere un titano, ma di dargli forma.
[7] Il Titano Prometeo dona all’umanità il fuoco, strumento fondamentale per il progresso della civiltà, fino ad allora detenuto dal grande Zeus. Il dio, geloso e restio a mettere in comune con gli uomini una simile risorsa, si adira per l’inganno di Prometeo (che aveva astutamente sottratto il fuoco agli dei e lo aveva portato sulla terra nascosto in una canna), e lo condanna a essere legato giorno e notte ad una rupe dove un’aquila gli rode il fegato che perennemente di notte gli ricresce. Ecco la scena descritta dalle parole stesse di Esiodo: «Legò Prometeo dai vari pensieri con inestricabili lacci, / con legami dolorosi, che a mezzo di una colonna poi avvolse, / e sopra gli avventò un’aquila, ampia d’ali che il fegato / gli mangiasse immortale, che ricresceva altrettanto / la notte quanto nel giorno gli aveva mangiato l’uccello dalle grandi ali» (Teogonia, Esiodo, 521-525 a.C.).
[8] Gli ellenisti hanno avuto la tendenza a patologizzare il dionisiaco vedendo l’isteria in Dioniso invece di vedere Dioniso nell’isteria (Hillmann, 1972)