
Recensione di Carla Stroppa

Nel titolo di un libro si condensa il suo senso, la traccia del percorso che si è sobbarcato il pensiero, l’intuizione e il sentimento dell’autore per approdare a una sintesi, o meglio a un’ipotesi convincente nella sua valenza di apertura a quella continua ricerca di significato che sostanzia l’animo e la mente umana.
Dunque in questa epoca postmoderna, che ha decretato la morte del sacro, dei simboli e delle grandi narrazioni su cui si era retta la modernità, di Dio rimangono solo resti. Già, ma dove cercarli? Con quale criterio? Con quale bussola?
Nel percorso conoscitivo ricco e complesso, condotto con rigore scientifico e con totale onestà intellettuale che Andrea Calvi offre al lettore, baluginano le risposte a queste domande, ma si badi bene, si tratta di risposte che non hanno la presunzione di definire alcunché, giacché il mistero della psiche, con le sue infinite rappresentazioni storico culturali, è precisamente il tema di fondo trattato esplicitamente e implicitamente nel libro; e la ricerca antropologica, letteraria e psicoanalitica che conduce Calvi non intende tradirlo questo mistero.
Piuttosto calamitata dai suoi “resti divini”, sparsi qua e là lungo la storia del pensiero, dell’immaginazione e rinvenuti nei riti che ancora sopravvivono e nei miti che ne fanno da sfondo e che sono per così dire controfigure di sogno immanenti al mondo, Calvi lo circoambula il mistero, con la lucidità del pensiero analitico che gli compete e con l’umiltà della consapevolezza del limite della coscienza egoica di fronte al trascendente.
Ci sono fenomeni e circostanze nella vita che paiono essere l’emanazione di una legge discreta, che ci sfugge sul piano razionale ma che l’intuizione e l’immaginazione possono in qualche modo percepire.
Ben sapendo che questa legge sempre sfuggirà alla presa del pensiero, mettersi sulle sue tracce è tuttavia un’avventura fertile e affascinante.
E nelle pagine del libro vi è certamente una tensione a ricomporre i resti di questa sacra percezione per delineare una mappa di senso e di significati leggibile, trasmissibile e storicamente fondata.
Andrea Calvi ci offre insomma quel genere prezioso (e disgraziatamente in via di estinzione) di ipotesi interpretative che sembrano emergere da un centro vivo e in movimento della psiche, che per sua intrinseca e ineludibile necessità si fa tramite di infinite altre domande, altre ipotesi, altre argomentazioni.
In buona sostanza è la psiche, alias l’anima, a condurre il gioco. Lo fa tramite il pensiero simbolico che lungi dal chiudere i fenomeni in un significato univoco, al contrario, mentre
lo delinea, rinvia sempre ad altro, e in questo modo fa girare la ruota dei significati.
E così traghetta quell’oltre, intravisto in sovraimpressione con le antenne speciali dell’intuizione e interrogato con la serietà dello studioso, che coi lumi della ragione cerca nei resti della storia attuale i lumi sacri ancora accesi.
Quel che resta di Dio è una questione troppo grande per essere ridotta; benché certo il sottotitolo del libro – Forme del Sacro nella cultura contemporanea e nella clinica – giustamente delimita l’ambito di ricerca e pone quei confini indispensabili a un orientamento all’interno di un cosmo di senso altrimenti vertiginoso e inesplorabile.
I collegamenti fra le amplificazioni antropologiche e la clinica sono di grande interesse e, mentre sfatano il pregiudizio che vuole separate fra di loro cultura e clinica appunto, mettono in scena ciò di cui parlano e lo rendono disponibile alla valutazione degli altri.
Per me è una vera passione constatare quanto le intuizioni e i pensieri di autori lontani si rimandino fra di loro in una sorta di gioco speculare, a dimostrare che una tensione di fondo accomuna gli animi affini e, dunque, è lì a testimoniare l’esistenza di una medesima matrice: una convergenza di sensibilità, di trame immaginarie e di intenti speculativi.
Constatare che certi fenomeni e certe interpretazioni si ripetono nel tempo e nello spazio è importante proprio oggi che viviamo l’epoca della frammentazione dei saperi e della perdita di identità che questo comporta.
Jung, ma prima e dopo di lui anche altri studiosi e altri individui creativi provvisti di sguardo panoramico e di affondo psichico, hanno dato un nome a questa matrice formulando il concetto di un fondo archetipico della mente.
Già, questa controversa e sfuggente questione che, come diceva S. Agostino a proposito del tempo, se non dici cos’è ma ti limiti a sentirla la capisci benissimo, ma se cominci a vivisezionarla col pensiero egoico e astratto ne perdi completamente la sostanza e amen.
Ed ecco che, tanto per citare un autore ancora vivo scelto a caso fra i tanti, Edgar Morin nel suo libro Conoscenza, Ignoranza, Mistero (Cortina, Milano 2018, p. 19), partendo da una differente (ma non troppo) angolazione del sapere, approda alle medesime questioni evocate da Calvi:
«Una gran parte dell’ignoto attuale è provvisorio e diventerà conosciuto. Ma la conoscenza, sviluppandosi, in particolare nelle scienze fisiche e biologiche, avvicina e rivela un ignoto più radicale, ancor più profondo».
È questo il punto, forse la vertigine che il pensiero cerca di eludere e circoscrivere, l’angoscia prima e ultima: il sacro spaventa perché appartiene alla sfera dell’ignoto e l’ignoto spaventa perché inevitabilmente evoca la soglia perturbante della morte delle certezze dell’Io, dunque del suo possibile disorientamento nel qui e ora.
In effetti leggendo il libro di Calvi ci si imbatte nei nuclei palpitanti dell’ignoto: nei prodigi del pensiero e delle pratiche magiche, nella sincronicità e nell’inquietante area psicoide della psiche individuale e collettiva, nello sciamanesimo, nell’idea di assoluto, nei legami tra psiche e materia, nell’alchimia, nella realtà delle personalità mana dei maghi, dei mistici e dei grandi sensitivi.

Insomma ci si imbatte in quella che Jung ha chiamato “la funzione trascendente della psiche”, non vista solo come argomento, ma nella sua realtà immanente e operante.
Fra i sensitivi e le personalità mana spicca Gustavo Rol che del rapporto con l’oltre è stato un potente e sconcertante rappresentante e al quale Calvi dedica un capitolo davvero interessante, non certo ingenuo, ma lontano anni luce dai tentativi di smagare e di
spiegare i prodigi della sua personalità col disincanto senza resti di senso (senza resti di Dio) della scienza esatta che, a forza di spiegare, cioè di spianare le pieghe dei fenomeni privandoli del loro mistero, finisce col rendere piatta la vita, noiosa, priva di quei giochi
di luce e ombra che proprio le pieghe creano.
L’attitudine alla spiegazione ossessiva, ovvero allo spianamento del tessuto della vita, rivela una radicale ignoranza della realtà della psiche e del suo potenziale numinoso, erotico, religioso e trasformista.
Chi riporta tutti i fenomeni di soglia fra il noto e l’ignoto a spiegazioni che pretendono di essere esatte, non ha la più vaga percezione della realtà della psiche o, se ce l’ha, la nega con una passione reattiva che fa pensare alla pressione interna di un perturbante troppo insidioso per essere considerato nel suo valore conoscitivo.
Il libro di Calvi si e ci interroga sui rapporti della coscienza e della storia con l’occulto e col suo invisibile, ma imprescindibile, legame col Cosmo e con l’Anima del mondo.
Del resto si tratta di un legame che attualmente viene sempre più esplorato anche da una certa scienza e che certo non è liquidabile con formule riduttive, né con un approccio meramente storicistico che nega a priori una struttura metafisica dell’esistente per sancire che tutto è realizzato dall’uomo, dalle sue conquiste e dai suoi rapporti con l’ordine sociale dei fenomeni.
No, Calvi ci conduce lucidamente – cioè con un pensiero illuminista che è però capace di trascendersi e di insidiare la soglia dei “lumi della ragione” e delle inutili ancorché dannose
barriere tra i territori del sapere – nello spazio transizionale dell’anima.
Ci fa conoscere la sua (dell’anima) mercuriale attitudine a riassemblare i pezzi sparsi del mosaico dell’identità, che si è infranta e impoverita lungo il percorso storico che ha portato l’individuo a dimenticare e a perdere il divino, ma che nondimeno continua per intrinseca necessità a cercarlo e a evocarlo.
E lo cerca all’interno degli spazi sacri in cui si svolgono ancora i riti che la tradizione ci consegna come fenomeni marginali al trend dominante, da ricercare a lato, fra i sopravvissuti al disfacimento: nei simboli vivi che fanno ancora sentire la loro radianza a dispetto dell’ufficiale, vera o presunta caduta delle grandi narrazioni e dei grandi fondamenti.
Seguendo l’appassionata ricerca di Calvi si può scoprire che a dispetto di tutto ciò che si registra nella superficie chiara e illuminata dal sole, sotto sotto gli dèi non sono morti anche se hanno cambiato, questo sì, la maschera con la quale si presentano sulla scena dell’oggi per interpretare ancora, sebbene sotto mentite spoglie, la loro recita nel gran teatro del mondo.
Ad esempio nelle danze scatenate, negli eccessi emotivi, nei colori abbaglianti e nella esaltazione dei sensi che si consumano nei rituali delle “tarantolate” del Salento, si può vedere (sempre che lo sguardo sia abbastanza penetrante o, per dirlo con Hillman, veda in trasparenza), una sorta di esorcismo inconsciamente teso a rimettere in contatto l’Io dissociato, con il corpo e con la trascendenza negati, tant’è che all’interno del rito che, si badi bene, si svolge sempre in uno spazio ritenuto sacro, alla tarantolata viene chiesto se è riuscita a parlare con il Santo.
La guarigione dagli effetti del morso del ragno, è immaginata sempre per volere di Dio attraverso la mediazione dei santi. Cristianesimo e paganesimo si innestano nei riti di cui ci parla Calvi, tanto che si potrebbe anche dire che i riti delle tarantolate rendono ancora omaggio al dio Dioniso fatto a pezzi da quelle forze titaniche che sono la scienza e la tecnica contemporanee.
Il fatto è che senza contenimenti mitici e rituali la coscienza umana va alla deriva. Caracolla come un’ubriaca tra le vie di un mondo sempre più vuoto e inospitale e finisce con l’approdare confusa e stordita, alla terra desolata dei sintomi psicosomatici che l’anima produce quando viene negata, deformata e banalizzata dalla storia e dal mondo: da quel genere di medicina, di psichiatria, di psicologia e di sociologia secolari che, cieche di ogni oltre simbolico o metafisico, presumono di ergersi a paradigmi esaustivi del sapere, manifestando così la loro arroganza e dopotutto anche la loro abissale ignoranza culturale perché certo l’oltre è stato oggetto di grande interesse culturale lungo la storia del pensiero e dell’immaginazione.
Avere cognizione dei tanti modi in cui l’animo umano si è espresso dicendo del suo dolore, dei suoi sogni di un oltre possibile e delle sue variegate strategie di sopravvivenza, non dovrebbe essere un optional per chi si occupa di salute mentale. Esplorare riti e miti, queste celesti controfigure della psiche, aiuta ad avere una fantasia su come aiutare i pazienti «…a trasformare l’urgenza libidica di scaricare la tensione, arginando e depotenziando gli eccessi di energia. Trasformare, non sedare!».
È di radicale importanza questa differenza, anche se, bisogna pur dirlo, la clinica obbliga a una dimensione di soglia, come dire a una sorta di un po’ questo, un po’ quello. Dipende.
In ogni caso e giusto per battere il tema, Jung ha sostenuto che la conoscenza antropologica e culturale dovrebbe essere un dovere per il clinico che non voglia rischiare di intrappolare la psiche dei pazienti, dentro la sua personale visione, magari dentro la sua personale area complessuale, o dentro la sua personale formazione di settore, o nel migliore dei casi, dentro la sua passione di parte o com’altro dir si voglia.
Si può obiettare che un po’ è inevitabile giacché ciascuno interpreta partendo da se stesso. Già, questo lo ha affermato Jung per primo, proprio prendendo le distanze da una presunta e neutra oggettività interpretativa, ma saperlo o non saperlo fa una grande differenza, e fa una grande differenza anche possedere e muoversi in uno spettro ampio, o viceversa piccolo di visione.
Insomma ci vuole una quota consapevole di eresia rispetto al trend dominante. Ci vuole curiosità, amore, libertà e gratuità di spirito, sostanziale anticonformismo, ma Dio mio, bisognerebbe intendersi sul significato di questi termini così inflazionati e banalizzati, così resi parodie di se stessi!
Sia come sia, rapportare i sintomi solo e ossessivamente alla biografia è un errore, rilancia Calvi.
Persino De Martino alle cui interessanti ricerche antropologiche egli si è affidato nel dipanare la sua argomentazione su miti e riti, è incorso in questo errore perché ha negato a priori l’esistenza di una struttura metafisica dell’esistenza e proprio per questo ha scisso il Tutto: ha scisso la sua percezione dei fenomeni, e l’interpretazione che ne è derivata, da sentimenti profondi come la fede che, ci dice Calvi, oltrepassa la sfera soggettiva per rispecchiarsi negli aspetti collettivi e sacrali dell’esperienza.
I grandi interpreti doverosamente interpellati nel libro, posseggono occhio panoramico, da regista che sa mettere a fuoco la scena complessiva, coniugando i primi piani, o i dettagli del qui e ora, ai campi lunghi e lunghissimi della storia dentro la quale, inutile negarlo, il sentimento religioso ha sempre giocato un ruolo fondamentale e dichiararlo, come ha fatto Freud, una “semplice sublimazione della sessualità”, suona assurdo.
Ma questa come si suol dire, è un’altra storia che chiama in causa le due correnti principali
di interpretazione che il pensiero ci ha consegnato: quella materialista e quella spiritualista con il loro contenzioso irrisolto e con la loro reciproca ripugnanza, benché oggi sia in atto un tentativo di integrazione al quale anche Calvi si riferisce.
E si eviti di mettere in guardia dalla “falsa universalità” perché i grandi interpreti hanno sempre testimoniato che orientare il cuore e la mente in direzione del Tutto, non vuol dire confondersi e annegare nell’indistinto, nella vago o nel caos primordiale. È vero il contrario esatto: ogni autentico rappresentante del Tutto ha sempre difeso con sensibilità e passione le distinzioni, le sfumature particolari, il cuore dei fenomeni. Ha sempre difeso i poli opposti della psiche, il suo micro e il suo macrocosmo.
È su questo doppio registro che bisogna insistere per intercettare nella frammentazione e vacuità attuale “quel che resta di Dio”, e nondimeno per intercettarlo in quella sua immensa e terrificante ombra in cui riprendono vita i fantasmi della notte, i sintomi che vampirizzano la coscienza e la vita e ricordano all’Io, che galoppa trionfalmente verso il post-umano, che i morti ritornano sempre e che assetati di sangue minacciano la sua integrità e la sua stessa sussistenza.
Davvero interessante e suggestivo a questo proposito il capitolo che Calvi dedica alla figura e alla fenomenologia antropologico-letteraria del vampiro, nonché alla sua simbolica ancorché diabolica manifestazione nei risvolti dell’ombra o, detto diversamente, al suo spaventoso ritorno nella notte senza stelle della psiche dissociata dell’uomo e della donna occidentali, afflitti da sintomi psicosomatici di oscura causalità.
Un logos troppo astratto e disincarnato, vuoto di eros, può vampirizzare l’esistenza.
Un puntuale resoconto storico della figura del vampiro che ha visto il suo successo letterario, e non solo, fra il ’700 e l’800, fonda l’interpretazione che Calvi ci propone e che con sensibilità e pertinenza mette in relazione alla sua esperienza clinica della quale ci offre significativi esempi.
Proprio questo collegamento tra la storia del pensiero e dell’immaginazione e l’interpretazione clinica, si fa testimonianza dell’importanza dell’amplificazione culturale: quando si possiede uno sguardo simbolico, anche le cose più bizzarre e stranianti nonché i sintomi che le mettono in scena, possono acquisire un senso integrabile alla coscienza e renderla così più ampia e inclusiva, più capace di considerare il corpo, le emozioni, le immagini.
Ecco cosa dice, in perfetta sintonia di visione, un uomo di lettere che ha curato l’opera di Piero Citati, questo geniale esploratore e narratore della cultura della notte:
«Solo attraverso i grandi miti, le grandi narrazioni iniziatiche, le loro aporie e i loro incanti, il nostro piccolo io può davvero schiudersi, trascendersi. Finalmente libera dal principio di non contraddizione, muovendosi tra i volti rivelatori e inquietanti, benevoli e paradossali del sacro, la nostra mente può spaziare, può ritrovare le radici più profonde, archetipiche dei suoi disagi e delle sue letizie, perché gli dèi non sono mai morti: essi abitano in noi, nel nostro inconscio, e in ogni momento ci guidano e ci turbano, ci confondono e ci inebriano».
Ecco, appunto: fra i “volti rivelatori e inquietanti”, orrendo, spaventoso, spicca quello del vampiro (Paolo Lagazzi, Il mago della critica, Alpes, Roma 2018, p. 41).
La furiosa caccia ai vampiri, alias streghe, stregoni, maghi, draghi, demoni e compagnia bella che la cultura illuminista, in strumentale complicità con quella clericale, ha edificato a difesa della presunta oggettività – ci suggerisce Calvi – altro non è che una colossale difesa storica dal lato in ombra della psiche individuale e collettiva.
Sarei tentata di dire che altro non è che un esoterico vade retro satana, pronunciato dalle autorità del mondo essoterico con un linguaggio che maschera il suo portato di fondo e si appoggia ai lumi della ragione per avvallare la propria avversione e paura del lato in ombra.
Il risultato da un punto di vista psicologico è il medesimo: la totalità della psiche viene scissa, sia che a farlo sia il lato ombra che il lato luce. Se è vero che la negazione dei lumi della ragione approda a oscure superstizioni, disastrosi fondamentalismi e cecità, è altrettanto vero che la negazione dell’ombra approda a un desolante appiattimento dei fenomeni, cieco in modo speculare a quello operato dalla luce della ragione e, quello che
più interessa al clinico, approda al ritorno patologico del rimosso, magari nella malattia psicosomatica, nel delirio e via dicendo.
Non sfugga che molto spesso a essere superstiziosi sono proprio i più “ragionevoli”! Manca sempre la percezione dell’Uno che si compone di doppi in costante e reciproco rimando. E, come la storia ci insegna, il gioco è sempre manovrato da chi avendo maggiore potere sociale influisce maggiormente sulla coscienza media collettiva dettando i suoi particolari parametri di adattamento e definendo come naturale conseguenza la sua particolare devianza.
Vito Teti, autore che Calvi considera nella sua ricerca, ha interpretato la figura del vampiro quale metafora dello straniero, del migrante, di colui insomma che non avendo una casa e una patria proprie, insidia quella degli altri creando avversione con tutto quello che ne consegue.
Come dire che ciò che viene escluso dalla scena del mondo e della coscienza finisce sempre per ritornare sotto forma di una forza oscura, vampirizzante e straniera all’Io.
Questo costringe tra l’altro a prendere atto che il tempo non ha un andamento lineare, ma spiraliforme: il passato non si può seppellire con i lumi della ragione protesi verso un progresso senza memoria né anima. Occorrono ancora e ancora i riti e i miti giusti atti a canalizzarne il senso nel qui e ora e oltre.
Dopo una disamina antropologica e letteraria che chiama in causa i grandi autori classici e le grandi correnti di pensiero, Calvi inserisce la sua personale interpretazione della figura del vampiro nel solco della psicologia analitica e propone l’archetipo di puer e senex come uno dei nuclei fondanti della psiche.
Scopriamo così che il vampiro può essere interpretato anche come lato ombra del Puer: come immagine dell’eterno seduttore, afflitto da un narcisismo atto a evitare il sacrificio e il contatto col limite e la trasformazione che il tempo impone.
Ma la riflessione di Calvi non si limita a questo: in essa vi è sempre un varco che conduce fuori dai riferimenti scolastici, vi è una personale angolazione di ricerca e di suggestione che a mio avviso rivela la capacità di accedere a una sorta di “stato secondo” (Edgar Morin):
a una lettura simbolica e ispirata che corteggia e dialoga con l’oltre e senza mai perdere la sua aderenza secolare e scientifica si interroga su aspetti che perlopiù rimangono estranei (stranieri come fossero vampiri) alla conoscenza ufficiale. Ecco allora che sulla scena, o meglio sulla pagina, si anima il discorso attorno allo sciamanesimo, alla realtà psicologica delle precognizioni, agli stati alterati di coscienza che oscillano tra chiaroveggenza e follia.
Comunque la si voglia mettere il vampiro è una figura estrema, è un folle, un posseduto, un demone e quando il suo spirito aleggia nella psiche, siamo ancora a contatto con l’oltre che magnetizza fenomeni di radicale inquietudine.
Ma l’area di ricerca inaugurata dall’oltre chiama a sé anche la soglia tra smarrimento e poesia, tra perdita di sé e ispirazione estetica e spirituale. E tanto altro di cui non posso rendere conto in poche pagine, ma si tratta sempre di Altro, che sfida a una ricerca di nuovi orizzonti sempre scandalosi per le menti storicistiche e meramente sociologiche.
Sempre affascinante per chi segue i tragitti simbolici del dio Hermes che si muove da mago tra altezze e profondità della psiche con le sue sublimi alucce ai piedi e che dunque comprende bene le parole di Kafka che Calvi rilancia nel libro:
«C’è un punto di non ritorno ed è quello che bisogna raggiungere».
Scandalo di un’affermazione che contraddice ogni senso comune, vertigine della perdita di ogni certezza e tuttavia fascino di un richiamo verso una trasformazione radicale di visione!
Soglia, confine tra la terra ferma dell’Io che vuole sempre ritornare a sé stesso e il grande mare dell’inconscio collettivo e dell’Anima del mondo dove tutto è connesso su un altro piano, tutto è in relazione.
Lì cantano le sirene e oramai, sempre sulle tracce di Kafka, lo sappiamo: per quanto sia pericoloso quel loro canto ammaliante e rapinoso, molto peggio è non sentirlo più, che poi è quello che sta accadendo oggi, nel tempo della perdita di Dio in cui a levare una voce non certo fascinosa, sono le sirene delle autoambulanze.
Di Dio ci rimangono i resti però, quelli che Calvi in questo suo libro ci aiuta a ritrovare e con passione conoscitiva e generosità intellettuale rianima per noi.
D’accordo, è pur vero, come conclude lui, che in ultima istanza non c’è consolazione ma che occorre accettare l’eterno gioco delle contraddizioni e dei conflitti: della fatica di vivere. È vero ma a mio parere rischia anche questo di diventare una formula ovvia, perlomeno per chi avendo superato la fase dell’inconsapevolezza e del sogno infantile lo sa bene che non ci sono consolazioni.
La realtà del conflitto e della contraddizione la tocchiamo giorno per giorno, attimo per attimo a volte e certo se non vogliamo porci come ingenui e incantati resti di un Dio che davvero non ha più ragione di essere, non possiamo che accogliergliela questa realtà e (pregare di riuscire a) farcene carico.
È così, ma dopotutto ciò che appare ovvio rischia di impaludare il movimento della psiche. È l’ovvio a non essere consolante ma decisamente desolante!
Se si è veramente curiosi dell’oltre, se lo si guarda con interesse, magari si preferirà considerare che proprio la lettura critica del tempo e soprattutto la trasfigurazione poetica e simbolica del reale un po’ consolanti lo sono, dopotutto, perché sono già testimonianza di un’avvenuta dislocazione della coscienza, cioè sono lì a testimoniare che esiste ancora luogo in cui l’anima può abitare, tra realtà e immaginazione, tra la forza trainante dell’ideale e la forza ancorante del corpo emozionale, e sono lì a testimoniare che la “funzione trascendente” non è solo un argomento intellettualmente interessante ma è una realtà immanente e operante dell’anima.
E allora si può imparare a lasciare emergere l’inconscio senza sottoporlo a quella razionalizzazione che ha drasticamente impoverito l’immaginario contemporaneo.
Si può riconoscere che il male ha una sua valenza sacra e iniziatica e non può e non deve sempre essere ridotto a una semplice misura clinica.
Non si tratta di fuga dal reale come un noto e noiosissimo pregiudizio decreta, ma trasfigurazione creativa, visione simbolico rappresentativa del gran teatro del mondo. In una parola è umanizzazione ribadita in un tempo che, tutto proteso verso scienza e tecnica, dell’umano rischia di perdere le tracce.
Quanto all’Io, questo complesso della psiche che si crede al centro di tutto alla stregua di come la terra potrebbe sentirsi al centro dell’universo ignorando che dopotutto è solo un piccolo pianeta sospeso fra i tanti corpi celesti, be’ a lui non rimane che trascendersi per l’appunto e, per orientarsi nel mare delle interpretazioni proteggendosi dal rischio di frammentazione gli converrà affidarsi senza più riserve alla “legge di simpatia” di cui ha parlato Frazer e che Calvi opportunamente riprende nel libro:
«il simile produce il simile, le cose che sono state in contatto ma che hanno cessato di esserlo, continuano ad agire le une sulle altre, come se il contatto persistesse».
Magari sintonizzandosi sulla lunghezza d’onda di questo subliminale ma cogente contatto, l’Io troverà il modo di riconnettere i resti sparsi di Dio, o detto col linguaggio della psicologia analitica, troverà il modo per contattare quel centro sovraordinato della psiche che Jung ha chiamato Sé.
Allora sì che comincerà veramente a sentire, a immaginare, a pensare. Il che non vuol dire che sarà sempre felice, tutt’altro, ma in ogni caso comincerà a vivere.
Bergamo, luglio 2019
CARLA STROPPA
FINE.
