
Temporalità, vergogna e il problema del male: il carteggio tra i due analisti junghiani Murray Stein ed Elena Caramazza edito da Moretti&Vitali
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Un vivo confronto sul senso del tempo dalla prospettiva della fisica di Wolfang Pauli a quella spirituale di Raimon Panikkar.
Il carteggio tra gli autori nasce dopo una conferenza di Murray Stein, nell’aprile del 2016, dal titolo: “Musica per il tempo che verrà. La lezione di piano” di Wolfgang Pauli.
Secondo Stein, Pauli, dopo il suo contatto con Jung, si cimenta col progetto di unire due correnti di pensiero: la fisica quantistica e la psicologia del profondo.
Se la scienza offre le parole per una spiegazione del mondo, la psicologia offre i significati delle parole; ma come combinare entrambi in un unico linguaggio?
La risposta simbolica di Pauli è: con la musica del pianoforte, suonata con i tasti bianchi e neri. Sarebbe proprio nell’armonia che si dispiega attraverso quella musica, che causalità e sincronicità si sposerebbero, dando origine a una teoria unificata.
Dopo essersi confrontati sui vari modi di intendere il tempo, i due autori concordano sulla concezione junghiana del male come polarità dinamica dell’esistenza che, pertanto, non si può scaricare su un capro espiatorio, né annientare, sconfiggere o negare.
Il male è parte integrante della vita, non lo si può eludere, ma solo metabolizzare e trasformare, insieme al bene. Questa è, del resto, l’essenza della creatività umana.
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Estratto dal libro: un confronto tra tempo, eternità, creatività, kronos e kairos (scrive qui la dott.ssa Elena Caramazza)
«INuna sua grande intuizione Panikkar scorge una relazione inscindibile tra tempo ed eternità, relazione che racchiude in ciò che egli chiama “tempiternità”, dove l’eternità non è un tempo che dura all’infinito, bensì la “radice non temporale del tempo”, in un certo senso il “kairos”, il tempo del significato e della profondità, che ha carattere più qualitativo che quantitativo, perché non è lineare né omogeneo, bensì segnala l’insorgenza del nuovo, che non è una conseguenza ma un inizio.
E penso che l’atto creativo vada molto al di là della decisione o della scelta dell’Io, legate alla facoltà discriminante dell’intelletto, perché promana da una sorgente che pesca nelle profondità del Sé, dove il Sé, in senso junghiano, non è solo una dimensione della persona singola, ma racchiude anche gli altri e l’intero cosmo.
Quando le mani pensano e la parola evoca, possiamo supporre che ci troviamo di fronte a un racconto del Sé: d’altra parte, aprirsi al nuovo, lasciare che emerga l’aspetto conosciuto di noi e della realtà, presuppone il coraggio di fare un passo nel vuoto, proprio perché ciò che nasce non ha precedenti e non è neppure implicito nello stato di pura potenzialità dell’essere. (…)
In questo senso penso che l’atto creativo interrompa in modo inedito il processo di pura causalità.
Come dice Panikkar, la coscienza umana ha una dimensione non riducibile alla coscienza storica:
“La realtà è fondamentalmente discontinua. Noi creiamo il tempo. Il tempo non ci sostiene come una madre: esso è nostro figlio. L’unica realtà è l’istante creativo. La storia è costituita da detriti, per così dire, dell’autentica attività umana e di ogni attività.” (1981; 1984, p.81)
Da questo punto di vista, a mio avviso, l’atto creativo non produce solo la dimensione “effettuale” della realtà e della storia, perché promuove anche tutte le possibilità di essere che, se pur non si tradurranno necessariamente in fatti concreti, costituiranno però l’alone, la profondità, l’ulteriorità di senso e il mistero di ogni espressione simbolica, che abbraccia anche l’invisibile.
Come dice Jung, promuovere un atteggiamento simbolico della coscienza significa “gettare un velo sui fatti così come sono”, (1911/1952; 1970, p. 226).
Del resto, anche per Jung, “fare storia” implica, in un certo senso, la capacità di essere “antistorici”, perché significa saper vincere la forza dell’inerzia storica, che si potrebbe assimilare alla forza trascinante del principio di causalità, dove gli eventi vengono determinati a partire da premesse già da te.
(…) Sempre per Panikkar l’eternità starebbe nel “qui” e “ora”, nel presente intensamente vissuto che trapassa il flusso del divenire e che, perciò, apparterrebbe a una dimensione trans-storica.
Da questo punto di vista il presente si potrebbe considerare come la dimensione temporale dell’eternità:
“Quegli attimi per i quali avremmo dato tutta la vita, quelle esperienze estetiche che sembrano atemporali, quelle sfere dell’esistenza che si aprono nella meditazione profonda “oltre le cime”, e le esperienze estatiche di fronte ai misteri della vita, della sofferenza e della morte, potrebbero essere esempi della irriducibilità della coscienza umana alla coscienza storica” (1981; 1984, p.19).
In particolare per quanto riguarda il morire, che sicuramente appartiene al tempo cronologico, Panikkar in un seminario ci disse:
“La morte non sta davanti a me, ma dietro di me, perché più vivo, più mi allontano da quel mortale non essere che era prima che io fossi.”
Analogamente raccontava una bella metafora:
“Immaginiamo di essere come delle gocce d’acqua che tornano nell’oceano. Se ci identifichiamo con la goccia d’acqua (la nostra stretta individualità), allora la morte è la fine di tutto, perché la goccia nel mare scompare, ma se ci identifichiamo con l’acqua della goccia, con la sua specifica qualità e quantità, che è unica, allora quell’acqua continua a vivere insieme a tutte le altre acque.”
Una volta, poi mi disse, per consolarmi dal dolore di un lutto che mi aveva colpita:
“Il tempo non può fermarsi in noi, ma neppure noi possiamo fermarci nel tempo.”
Concluderei questa mia riflessione ricollegandomi a Jung che coglie il nucleo della stessa profonda intuizione di Panikkar quando dice:
“La vita mi ha sempre fatto pensare a una pianta che vive del suo rizoma: la sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma: la sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. Ciò che appare alla superficie della terra dura solo un’estate, e poi appassisce, apparizione effimera.
Quando riflettiamo sull’incessante sorgere e decadere della vita e delle civiltà, non possiamo sottrarci a un’impressione di un’assoluta nullità: ma io non ho mai perduto il senso che qualcosa vive e dura oltre questo eterno fluire. Quello che noi vediamo è il fiore, che passa: ma il rizoma perdura…
In fondo, le sole vicende della mia vita che mi sembrano degne di essere riferite sono quelle nelle quali il mondo imperituro ha fatto irruzione in questo mondo transuente”. (Ricordi, sogni, riflessioni. 1961; 1965, p.22)
FINE.

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