«Una coscienza ipertrofica è sempre egocentrica, e conscia soltanto della propria presenza. È incapace di apprendere dal passato, incapace di comprendere gli eventi del presente, e incapace di trarne delle corrette conclusioni per il futuro. È ipnotizzata da se stessa, e perciò non intende ragioni. È quindi condannata a delle catastrofi che necessariamente la uccidono. Paradossalmente l’ipertrofia dell’io è un diventare inconscio della coscienza»(C.G Jung – Psicologia e alchimia, Opere vol. 12, p.458)

Trovarmi qui tra di voi, esperti della psicoterapia con adolescenti mi provoca una sensazione particolare. In un certo senso, mi sento un outsider, non soltanto per non essermi mai occupato seriamente di questo aspetto del mondo delle psicoterapie, ma soprattutto perché, come tutti sappiamo, C.G.Jung ha concentrato le sue attenzioni sulla cosiddetta “seconda metà della vita”.
Nel suo saggio intitolato “Gli scopi della psicoterapia” (1993), lo stesso Jung afferma chiaramente che il suo contributo principale ha a che fare con ciò che chiama la fase sintetica costruttiva del lavoro analitico, ovverosia con quella parte del percorso individuativo in cui il paziente cerca il senso profondo della sua vita e dei problemi che ha dovuto affrontare. Con poche eccezioni, gli studi e gli approfondimenti di Jung riguardano la vita della psiche dell’adulto.
Tuttavia, la visione junghiana della personalità apre ampi spazi per una riflessione sulla personalità in divenire e alla luce delle sue intuizioni sulle interazioni tra la coscienza e l’inconscio nella definizione di tratti di personalità, spiana la strada a una serie di importanti considerazioni sulla vita psichica dei giovani. Alcuni bravissimi colleghi presenti qui oggi lavorano con gli adolescenti a partire dai principi della psicologia analitica di C.G.Jung e i frutti del loro lavoro è davanti agli occhi di tutti.
Qualche mese fa sono entrato nel negozio di giocattoli che si trova vicino al mio studio con l’intento di acquistare un regalo per due gemelli, figli di carissimi amici. La signora che gestisce il negozio era contentissima di propormi una novità appena arrivata nel suo negozio dalla Germania: il mostro mangia preoccupazioni o il mostro mangia problemi. Si tratta di una cosa simile ai worry dolls che esistono in alcuni paesi del centroamerica, per esempio in Nicaragua.
Questi mostri mangia problemi sono semplicemente dei pupazzi di pelouche dotati di una chiusura lampo al posto della bocca. Se un ragazzo ha un problema, dovrebbe scrivere su un foglio di carta, due righe o meglio disegnare il problema, farne una rappresentazione per poi inserirlo, prima di andare a dormire, nella zip del pupazzo che durante la notte provvederà in qualche modo a “digerire” per conto del giovane, il problema che lo assillava.
Ho obiettato dicendo che mi sembrava una cosa un po’ troppo infantile per due ragazzi in primissima adolescenza al ché la signora mi ha citato due esempi di ragazzi più o meno della stessa età che avevano usato il mostriciattolo mangia problemi e che avevano trovato giovamento tramite questo gioco. La signora – abile venditrice! – mi ha convinto a comprare due esemplari di questi mostri, dicendo:
“Sa, questi ragazzi hanno bisogno di sentire che gli arriva un aiuto da qualche parte perché questo povero io, da solo, non ce la fa.”
Affermazione straordinaria!
Questo povero io, da solo, non ce la fa. E perché mai dovrebbe?
Il mito della coscienza egoica forte e eroica continua a dominare la scena psicologica.
Si continua a credere e a insegnare che prima di qualsiasi altro intervento, occorre aiutare un paziente – adolescente o adulto che sia – a sviluppare un io forte perché questo servirà non soltanto ad affrontare tutte le vicissitudini della vita ma anche a resistere alle tentazioni che potrebbero emergere da quell’istanza psichica incontrollabile e ingestibile per eccellenza, l’inconscio.
L’io assume il ruolo del vigile urbano; e spesso con l’arroganza di chi crede di sapere più dell’inconscio, del grande mistero che ci circonda, dà ordini, ammette certi contenuti nella sua sfera mentre ne respinge altri, mantiene ciò che a lui sembra essere ordine al servizio del senso.
L’io eroico e inflazionato finisce per stare al centro di tutto e entra in modo subdolo in tante affermazioni che facciamo: “ho fatto un sogno” e il potente homo faber sembra aver persino creato la propria realtà onirica.
Spesso i pazienti si domandano “chissà perché in questo sogno io ci ho messo quel personaggio”, come se il sogno fosse il risultato di una strategia della coscienza egoica e non una compensazione inconscia che apre per il bravo ma limitato io nuove inaspettate prospettive. Pur sapendo che il povero io, da solo, non ce la fa, lo mettiamo al centro di tutti i nostri discorsi, come se fosse il padrone assoluto della baracca e non un semplice amministratore di condominio.
Il rapper Fedez dice e ripete “nulla può girare intorno a te se giri sempre intorno a te stesso”.
Certo, non vorremmo finire per sentire che tutto il mondo gira intorno a noi, ma piuttosto per sentire che l’io fa parte di un sistema energetico psichico più grande di sé stesso, questo sì, e che è circondato da forze e risorse che arrivano da un’altra fonte.
Facciamo un salto indietro di 1800 anni. Un ragazzo di 12 anni del medio oriente, di nome Mani, ha una visione in cui un suo doppio, suo gemello, preannuncia ciò che sarà per lui un destino difficile ma altamente significativo. (a tal proposito si veda l’interessante libro di Giuseppe Vadalà: “Syzygos: Il Doppio. Da Compagno Divino a Immagine del Sé”.)
A questo punto è un preannuncio, e di nuovo, dopo ancora 12 anni, il gemello riapparirà in un’altra visione per dare il via alla predicazione che farà nascere la setta dei Manichei che continua a esistere anche oggi, sia come gruppo religioso sia come visione dualistica della vita.
Jung metteva Gesù, il Buddha, Lao Tze e Mani nella stessa categoria; li considerava pilastri della nostra civiltà e elementi importanti del patrimonio spirituale dell’uomo moderno.
Mani incontra l’altra parte di sé, lo psichico non io, che fa parte del complesso sistema di energie nella personalità. Il povero io sicuramente da solo non ce l’avrebbe fatta.
Un paziente di 16 anni mi disse una volta che quando, a 12 anni, aveva messo bene a fuoco il fatto che esistevano dei gemelli (ce n’erano due in classe a scuola, per esempio) continuava a domandarsi perché lui non aveva un gemello, perché non esistesse un altro “lui” in grado di dargli il sostegno che i gemelli in classe si davano a vicenda.
Il motivo dei fratelli gemelli appare frequentemente nelle fiabe e nei miti; sembra che la fiaba più antica che conosciamo racconti i conflitti e le avventure di due gemelli egizi. La letteratura antropologica ci insegna che alcuni primitivi uccidono i gemelli immediatamente dopo la nascita perché rappresentano un’anomalia troppo grande; in altre culture, un fratello viene sacrificato mentre l’altro occupa uno spazio d’onore nella tribù, e in altre culture ancora i due gemelli vengono considerati divini.
Il divino Polluce è un adolescente quando il suo fratello gemello, il mortale Castore, muore. Polluce non ce la fa, da solo, ad andare avanti senza questo suo gemello, senza questo amatissimo psichico non io. Si rivolge a suo padre divino, l’onnipotente Zeus che risolve la questione permettendo ai due ragazzi di passare un giorno insieme come essere divini, se accettassero di passare un giorno insieme come mortali, morti insieme. E avanti così, alternando giorni di divinità da godere insieme con giorni di mortalità e di morte.
“Noi siamo quei Dioscuri” scrive Jung (1917) – perché abbiamo (o perlomeno dovremmo avere) un piede solidamente nel hic et nunc, nell’immanenza, nell’orizzontalità della vita concreta ma anche un piede nella trascendenza, nell’aldilà, nel mondo degli spiriti, dell’invisibile e del mistero.
Quella doppia esistenza in cui i gemelli Dioscuri dividono divinità e mortalità è una vita squisitamente simbolica, con una coscienza sospesa tra le due realtà, mai identificata completamente né con l’una né con l’altra.
Quello psichico non io ci ricorda che non è vero che tutto dipende da me, che devo soltanto gestire le mie risorse nel modo migliore possibile per raggiungere gli obiettivi prefissati, che tutto è farina del mio sacco e frutto del mio sudore. Certo, l’impegno, la determinazione, la forza di volontà sono importanti, persino essenziali. Per questo motivo il divino Polluce non vive senza Castore che corrisponde alla nostra umanità vulnerabile e mortale. Sacrifica addirittura una parte della sua divinità pur di rimanere attaccato a Castore. Ma anche l’umano e mortale Castore sarebbe incompleto senza il fratello divino, senza un’apertura alla trascendenza e all’assist misterioso che ci arriva dall’inconscio.
Il cantante cult, Giovanni Lindo Ferretti, dice che quando canta, chiude gli occhi perché sente di stare in equilibrio tra due dimensioni; si trova, potremmo aggiungere, tra Castore e Polluce, tra l’impegno egoico e la magia dell’ispirazione.
Se non aiutiamo i nostri pazienti, giovani o grandi che siano, ad avere un’apertura di qualche tipo nei confronti della sfera del mistero, della trascendenza, dell’ingestibile e invisibile dentro di loro, e dentro tutti noi, la trascendenza verrà proiettata fuori e i ragazzi troveranno ciò che sembra la trascendenza nella bellezza delle apparenze, nella tecnologia, nelle sostanze o in certi personaggi più o meno discutibili ma di grande visibilità (in una classe del secondo ginnasio, ho sentito dei ragazzi esprimere grande ammirazione per Berlusconi, Fabrizio Corona o persino Vladimir Putin).
E anche quando le proiezioni investono personaggi decisamente più positivi (papa Francesco, Barack Obama, Franco Battiato, Francesco Totti) si tratta pur sempre di uno spostamento di una potenzialità psichica dal proprio mondo interno verso una realtà esterna.
E l’io rimane sempre lì, magari ad ammirare queste figure, a cercare ispirazione in loro, ma non a vivere a pieno le proprie risorse non egoiche.
Jung credeva e insegnava che la psicoterapia avesse anche una funzione pedagogica – un paziente o una paziente impara a vivere nella terapia.
Credo che l’introduzione delle fiabe e, ancora di più, dei miti, in psicoterapia sia di fondamentale importanza. È lì che emergono le immagini non soltanto di eroi, ma di uomini e donne alle prese con il proprio destino ma sempre consapevoli che ci sono forze in campo che sono più grandi delle loro buone intenzioni e della loro forza di volontà: si tratta degli dei che giocano un ruolo importante e determinante. Il mito risuona nella psiche come pochi altri contenuti e stimola l’immaginazione. Tocca una corda profonda e vecchia migliaia di anni.
Ma invece di insegnare a riflettere sui miti, siamo diventati seguaci e discepoli del mito della coscienza egoica e eroica.
Crediamo nell’importanza dell’ io fine a se stesso. Eppure sappiamo, o dovremmo sapere fin troppo bene, quali siano le conseguenze di un’iper-responsabilizzazione, in senso egoico, dei ragazzi: stress, l’uso e abuso di sostanze, depressione e, a volte per disperazione, la resa totale e il suicidio. Abbiamo perso di vista il fatto che la coscienza è per definizione una sorta di joint venture.
La stessa parola, co-scienza, indica un sapere con, con il mondo intorno a noi, questo sì, ma anche con il misterioso invisibile mondo dentro di noi che potremmo chiamare trascendenza.
A proposito dei miti e della storia delle civiltà, dovremmo studiare di nuovo gli Etruschi (e proporli come spunto di riflessione) – che sono tra i nostri antenati qui a Roma.
Il loro mito delle origini non contiene nulla di eroico – non hanno combattuto contro feroci nemici, non hanno dovuto affrontare difficili viaggi per conquistare terre nuove e fondare una nuova civiltà. Sembra che davanti a racconti di questo genere, la risposta etrusca fosse semplicemente: “Noi siamo sempre stati qui”, a contatto con la nostra terra.
Un popolo raffinato, all’avanguardia per quanto riguarda il ruolo delle donne e dei valori femminili, aperto nei confronti degli stranieri invece di essere paranoicamente sospettosi o altezzosamente superiori (caratteristiche di un io che si sente minacciato da ciò che non rientra nei propri schemi).
Più ci rendiamo conto che la vera diversità la portiamo dentro di noi, nell’inconscio, e meno possiamo prendercela con i diversi intorno a noi.
E ci ricorda, Livio, che il popolo etrusco, più di tutti i popoli dell’antichità, era il più devoto e attento nei confronti degli dei.
Senza quel contrappeso della visione che i miti ci possono dare, l’io rischia sempre di usurpare e di cooptare indebitamente aspetti della vita psichica che, alla fine, si rivelano troppo pesanti per le sue limitate risorse. Perché questo povero io, come mi diceva la signora del negozio dei giocattoli e come direbbe il bravo Totti se fosse qui con noi oggi, da solo, “nun ‘gna fa”.
– di Robert Michael Mercurio –
dal libro “Adolescenza e pseudoadolescenza. Nuove emergenze e nuove prospettive.“, a cura di Luca Chianura e Vittoria Quondmatteo
👤 Chi è Robert M. Mercurio
Psicologo, psicoterapeuta e analista junghiano, Roma
Grazie Emanuele.Innanzi tutto di ricordarti di me anche senza mai conoscerci da vicini. Spero avere questa occasione malgrado la mia Eta che avanza. Ho letto con molto interesso e piacere il significato dell’IO. Ne sono rimasta entusiasta, anche nell’approccio della conoscenza dell’illustro personaggio Robert M.Mercurio.E ne ho apprezzato molto il suo script.Ma come sai io non ho fatto che Studi spezzati, dalle mie prime classe scolastiche. Forse e proprio per questo, che con la mia esperienza di Madre di Otto figli, dove la settima gravidanza ne e stata,anche gemellare, che il mio spirito si e aperto a questo studio, di scienza umana, con una volonta insistente Autodidattico. Ricca nella mia coscienza Matriarcale, amando la storia Universale, con tutti i Miti e Leggende. Peccato che in questa mia Passione non riesco a leggere molti libri. Ma della mia cultura Religiosa, avvicinandomi a Jung, con Jung- Italia grazie a te Io credo che ne ho saputo riducere l’essenziale, per arrivare oggi ai miei 75 anni a una saggezza trascendatale, dove mi sono trovata in un’altra conoscenza.