
Durante tutto il Novecento, i paradigmi psicoanalitici hanno ispirato la critica letteraria e nutrito la creazione poetica. Secondo Freud, i poeti “sono preziosi alleati, e bisogna tenere in grande considerazione la loro testimonianza” (Delirio e sogni nella Gradiva di Jensen, 1907).
La psicoanalisi di Jung si è rivelato forse il pensiero più adatto ad avvicinare quell’Altro della scrittura che è la poesia: lo testimoniano i due saggi Psicologia analitica e arte poetica (1922) e Psicologia e poesia (1930 e 1950).
Questo numero dell’Ombra si pone all’ascolto di questa risonanza dell’Anima, che oggi pare più silenziosa, tra due domini spirituali contigui e incommensurabili, tra la psicoanalisi e la poesia.
Recensione a “Psicoanalisi e poesia”
(di Andrea Schellino)
Intrecciata alla psicoanalisi fin dalla sua nascita, la critica letteraria psicoanalitica ha attraversato lo scorso secolo e si è spinta, dopo molte erranze, fino a oggi.
In una conferenza del 1907, intitolata Il poeta e la fantasia, Freud paragonava la creazione letteraria al sogno diurno e assimilava il poeta al sognatore cosciente, mostrando così la vocazione della prima psicoanalisi di legare le proprie sorti all’arte e alla letteratura, per scoprire e affinare i propri mezzi.[1]
Secondo Freud, i poeti “sono preziosi alleati, e bisogna tenere in grande considerazione la loro testimonianza”.[2]
Su uno sfondo collettivo, Jung ha prolungato il processo inconscio che dà vita all’opera d’arte verso i territori del simbolo e dell’archetipo: l’immaginazione dell’artista non può essere ridotta a sintomo psicologico, ma si apre a modalità visionarie. Il pensiero di Jung si è rivelato particolarmente propizio ad avvicinare l’Altro della poesia: lo testimoniano i due saggi Psicologia analitica e arte poetica (1922) e Psicologia e poesia (1930 e 1950).
In Italia, la tradizione filosofica idealista ha ostacolato a lungo il dibattito sull’apporto dei metodi psicoanalitici alla creazione letteraria e artistica.
Benedetto Croce, in un corto articolo pubblicato nella Fiera letteraria nell’agosto del 1946, denunciava la sostanziale inutilità del “freudismo”, incapace di introdurre nuove conoscenze rispetto a una filosofia rigorosa e puramente speculativa [3].

L’ombra dell’irrazionalità moderna si traduceva così, per Croce, nell’eccessivo interesse portato ai fenomeni inconsci: il suo auspicio è che l’abisso ch’egli riconosce tra sogno e arte sia preservato dalle velleità dell’indagine freudiana.
Dinanzi alle perplessità del pensatore napoletano, Umberto Saba opponeva, in un testo pubblicato un mese più tardi nella stessa rivista, il continente aperto dalla rivoluzione psicoanalitica: sebbene poesia e psicoanalisi siano per lui “quasi incompatibili”[4], giacché la risoluzione del patrimonio inconscio nella coscienza impedirebbe l’ispirazione poetica, l’autore del Canzoniere novecentesco considera la psicoanalisi come una tappa imprescindibile del pensiero moderno, cui nessuna attività dello spirito può più restare insensibile. La rivoluzione freudiana è, secondo Saba, una rivoluzione del profondo: le luci che getta nell’interiorità dell’artista non escludono la genesi d’altre oscurità creative.
Gli anni del dopoguerra sono propizi all’integrazione della riflessione psicoanalitica, nelle sue diverse forme, alla critica letteraria e alla poesia. Così Guido Almansi dedica un numero del Verri (n. 28), nel settembre del 1968, a Psicoanalisi e poesia, accogliendo contributi di Jean Starobinski, di Guy Rosolato, di Octave Mannoni e di Renato Barilli. La raccolta si apre a suggestioni lacaniane.
L’ipotesi di Lacan, per cui «l’inconscient est structuré comme un langage»,[5] ha infatti implicitamente rafforzato l’idea per cui il poeta, posseduto dalla parola, è al servizio dell’inconscio.
Come ha osservato Jean Starobinski, una volta abbandonato lo psichismo estetico, la critica può far convergere analisi stilistica, tematica e psicoanalitica, se è vero che le vie del desiderio si associano alle figure stilistiche e alla retorica (eufemismo, ellissi, litote, ecc.).[6]
Da allora, questi orientamenti non hanno smesso di rinnovarsi, di confrontarsi con le aporie riduzionistiche a loro implicite, di rinascere dalle proprie ceneri, e di moltiplicare, talvolta imprudentemente, gli orizzonti ermeneutici. Il crepuscolo della teoria letteraria, in tempi più recenti, ha investito anche la critica psicoanalitica, disorientata dalle decostruzioni operate sull’autore, sul lettore e persino sul personaggio letterario.[7]
Quale vitalità e quale pertinenza possono avere oggi i suoi strumenti per la critica, e come può, reciprocamente, l’opera letteraria nutrire l’investigazione psicoanalitica? In quale misura la psicoanalisi può essa stessa, lungi dalla volontà del suo fondatore, assumere una forma poetica?
I contributi raccolti nel nuovo numero dell’Ombra, intitolato Psicoanalisi e poesia, sono il prodotto prismatico di questo scambio. Come sottolineano Alessandro Defilippi e Ferruccio Vigna nel loro articolo, con Il libro rosso Jung opera “il più grandioso tentativo operato dalla psicoanalisi per accedere all’essenza umana tramite un linguaggio che, seppure con qualche sconfinamento nel tono profetico, è fondamentalmente pura poesia”.[8]
Attraverso l’opera di poeti del Novecento (Lorand Gaspar, Pierre Jean Jouve, Cesare Pavese, Francis Ponge) o contemporanei (Patrizia Gioia, Christian Vogels), e aprendosi a riflessioni più generali, questa raccolta si pone all’ascolto della risonanza dell’Anima, che oggi pare più silenziosa, tra due domini spirituali contigui e incommensurabili, tra la psicoanalisi e la poesia.
Andrea Schellino,
Università Roma III – ITEM, CNRS-ENS Paris

Note:
[1] Si veda Sigmund Freud, Il poeta e la fantasia, in Opere, vol. 5: Il motto di spirito e altri scritti, a cura di C. L. Musatti, Torino, Boringhieri, 1985.
[2] Sigmund Freud, Delirio e sogni nella Gradiva di Jensen, in Opere, vol. 5: Il motto di spirito e altri scritti, op. cit., p. 259.
[3] Benedetto Croce, Psicanalisi e poesia, “Fiera letteraria”, 8 agosto 1946; raccolto in Nuove pagine sparse, Napoli, Ricciardi, 1949, pp. 258-259; ried. in “PsicoArt”, n. 3, 2013, pp. 7-8.
[4] Umberto Saba, Poesia e psicanalisi, “Fiera letteraria”, 5 settembre 1946; ried. in “PsicoArt”, n. 3, 2013, p. 11.
[5] Jacques Lacan, Le Séminaire, livre XX, texte établi par Jacques-Alain Miller, Éditions du Seuil, Paris 1975, p. 46.
[6] Si veda Jean Starobinski, La Relation critique, Paris, Gallimard, coll. Le Chemin, 1970 e, dello stesso autore, Les Directions nouvelles de la recherche critique, “Cahiers de l’AIEF”, n. 16, 1964, pp. 121-141.
[7] Si veda Peter Brooks, Pour une poétique psychanalytique, “Littérature”, n. 71, 1988, pp. 24-39.
[8] Alessandro Defilippi, Ferruccio Vigna, Per diventare se stessi, “L’Ombra”, n. 15: Psicoanalisi e poesia, a cura di Andrea Schellino, 2021, p. 42.
Sempre piacevoli ed illuminanti i tuoi articoli! A proposito di psiche e poesia pubblico una cosa che ho scritto a riguardo sperando incuriosisca:
La psiche del Poeta
L’anedonia* nei confronti di una vita normale
è per lui cosa naturale,
sempre alla ricerca di qualcosa di più profondo.
Vede uomini troppo alessitimici* nel mondo,
infanti delle emozioni
immersi nelle loro vane azioni.
Da qualche parte gli hanno insegnato verbo e versi,
e ora il suo unico scopo riandar dove li ha persi. (lapsus del verbo essere)
Oggi non lotta più contro rime e mura di endecasillabi,
oggi lotta contro caratteri su schermi illeggibili,
che lo riflettono e lo oscurano
come fossero specchi finti
che non gli possono ridare la sua immagine
Il poeta deve creare continuamente nuove forme,
impantanato nel polimorfismo tecnologico,
immerso nella società del consumo,
nel bel mezzo della battaglia tra egoismi postmoderni.
Il Poeta legge sempre e solo tra le righe
per questo non capisce un testo troppo semplice:
è albatro goffo sulla prua della nave di Caronte,
è Ermete psicopompo che assiste travagli di anime,
ma da sempre sa anche volare altrove,
quandunque la sua voglia lo voglia.
Il Poeta deve avere quadricipiti nervosi
che lo trascinino con salti d’Anima vigorosi.
Al Poeta piacciono i diamanti grezzi,
sporchi di terra,
incastonati nel mondo,
che brillano di luce propria,
che gli indicano la via.
Non diamanti tra le dita,
non imprigionati nei gioielli,
non oggetti di vanità.
Il Poeta conosce l’importanza dell’attribuzione di significato:
è il suo primo comandamento!
Ma è combattuto da una torma di dubbi,
in una lotta impari
adatta solo agli animi più nobili:
solo chi riuscirà a morire con dignità
sarà degno del Tempo.
Il Poeta non sa tutto
ma certe cose le conosce molto bene.
Non si sofferma solo sui profumi,
vuole arrivare all’essenza dei fiori.
Il Poeta è il più solo tra gli uomini,
non ha appigli quando precipita negli abissi,
guarda dritto il fondo
sempre pronto all’impatto,
avido della regina delle emozioni.
La paura non lo spaventa,
il coraggio non lo aiuta.
Non ne ha bisogno:
solo con i suoi versi può salvarsi.
Il termine anedonia (parola greca composta dal prefisso negativo an e h?don?, “piacere”) si definisce l’incapacità, totale o parziale, di provare soddisfazione, appagamento od interesse, per le consuete attività piacevoli, quali il cibo, il sesso e le relazioni interpersonali. l termine medico è stato coniato verso la fine del Novecento da Ribot, psicologo francese che definì l’anedonia come l’incapacità patologica di percepire piacere in ogni sua forma. Io qui la intendo come incapacità di godere allo stesso modo degli altri uomini perché alla ricerca di un piacere più profondo.
Alessitimia (anche alexitimia, dal greco a- «mancanza», lexis «parola» e thymos «emozione» dunque: «mancanza di parole per [esprimere] emozioni») è un costrutto psicologico che descrive una condizione di ridotta consapevolezza emotiva, che comporta l’incapacità sia di riconoscere sia di descrivere verbalmente i propri stati emotivi e quelli altrui. Tale condizione è stata individuata e descritta per la prima volta negli anni cinquanta in pazienti affetti da patologie classicamente definite come psicosomatiche (ulcera gastroduodenale, eczema, asma, ecc…) rafforzando così l’idea, già presente nella tradizione psicoanalitica, che tali pazienti fossero portati ad esprimere la sofferenza emotiva (altrimenti inesprimibile) tramite la sofferenza fisica[2]. Viene attualmente considerato anche come un possibile deficit della funzione riflessiva del Sé