Psicosomatica Corpo Suono Voce

“La voce è. Prima ancora che il linguaggio abbia iniziato.
La voce ha già da sempre origine, c’è come potenzialità di significazione
e vibra quale indistinto flusso di vitalità,
spinta confusa al voler dire, all’esprimere, cioè all’esistere”
(Bologna, 1992)
– Articolo di Sandra Freni –
Voce e Creazione
“In principio era il Verbo” espressione tratta dal primo verso del Vangelo secondo Giovanni nonché incipit di uno dei più famosi romanzi di Umberto Eco, “Il nome della rosa”, viene qui ripreso al fine di indicare il ruolo che il Verbo, quindi la parola, ha nel dare vita alla creazione.
Prima ancora della parola sembra esserci stata la voce, infatti in alcune religioni orientali viene fatto accenno a un “singing ground” ossia un suono, una frequenza iniziatica che avrebbe il potere di dare vita all’esistenza delle cose.
Nello sviluppo psichico dell’individuo questa frequenza base potrebbe essere equiparabile a quella della voce materna, primo vero suono udito in maniera bi-modale dal bambino, che ha il ruolo di strutturare il suo Sé internamente, ma anche esternamente definendone i confini corporei.
Il bambino infatti nei momenti di interazione diadica, oggetto di studio e particolare attenzione di molti ricercatori dell’infant research, viene chiamato per nome dalla madre e in quel suono, che imparerà a riconoscere come proprio, vi è il seme della sua esistenza.
L’importanza del suono materno ha origini lontane che ci conducono all’esplorazione del comportamento tra primati.
Falk in un libro dal titolo “Lingua madre” propone l’ipotesi che ha definito del “mettere il bambino giù” (Putting the Baby Down, PTBD), suggerisce come la voce materna abbia assunto evolutivamente la funzione di infondere calma nel bambino mantenendo un contatto che, non potendo essere più fisico, assumeva lo stesso potere rassicurante in forma vocale. Quando la madre doveva andare a procurare il cibo, non potendo tenere sulla propria schiena il peso del piccolo il quale ne avrebbe ostacolato i movimenti, lo lasciava “giù” ma sempre a una distanza tale che potesse udire la sua voce in modo da poterne calmare l’eventuale pianto, il quale avrebbe potuto allertare predatori vicini.

Quindi oltre che una funzione nello sviluppo del bambino, la risposta del genitore al pianto del figlio ha avuto inizialmente una funzione difensiva per la sopravvivenza della specie.
Riprendendo l’affermazione di Winnicott per cui “non esiste bambino senza la madre” potremmo provocatoriamente affermare che niente esiste davvero senza l’altro.
La dualità è un aspetto pregnante e ricorrente in tutti gli elementi del mondo e in tutti gli ambiti di nostro interesse scientifico. La dualità più importante che viene qui presa in considerazione è quella relazionale per cui niente esiste in assenza di un altro che lo riconosca: il bambino non ha coscienza di esistere finché la madre lo nomina, lo manipola, lo accudisce.
Per tali motivi anche l’inconscio non può essere pensato se non come a un dialogo tra la rappresentazione psichica della realtà propria e di quella di un altro con il quale interagiamo.
Se pensiamo a queste infinite combinazioni l’essere umano ha quindi altrettante possibilità di sviluppo ma, se prendiamo come assunto fondamentale il potere plasmante della parola, la traiettoria di queste può variare in base a come ci si rivolge nei suoi confronti.
La prova di ciò giunge dall’osservazione della comunicazione intra-familiare e del contesto di vita ambientale e relazionale del paziente che, una volta approdato al setting clinico, ci pone dinnanzi all’esperienza di voci talvolta dissonanti, oppure in sintonia, o ancora a flusso ininterrotto oppure fievoli ed esitanti, fino al silenzio.
La voce del corpo nel mito
Didier Anzieu (2017) in suo interessante scritto dal titolo “Io-pelle” propone e descrive il costrutto teorico che dà il nome al libro ossia “una rappresentazione di cui si serve l’Io del bambino, durante le fasi precoci dello sviluppo, per rappresentarsi sé stesso come Io che contiene i contenuti psichici, a partire dalla propria esperienza della superficie del corpo.”

Come abbiamo detto è la manipolazione materna del corpo del bambino che fa in modo che questo prenda coscienza, in maniera pre-verbale, dei propri limiti nel mondo, ma di fondamentale importanza è anche la componente sonora che si accompagna a questo gesto, infatti l’autore in un capitolo dal titolo “Involucro sonoro” riprende il concetto di “bagno di parole” in cui il bambino è immerso sin dalla nascita, a partire dai suoni che avverte nel liquido amniotico.
La pelle fa da tramite col mondo pertanto le sensazioni tattili esperite sulla stessa possono veicolare all’interno una moltitudine di stati d’animo.
L’autore a tal proposito descrive il mito di Marsia, il sileno scorticato da Apollo che viene qui ripreso nella versione riportata da Frazer ne “Il ramo d’oro”:
“Fiero della sua arte, lanciò ad Apollo una sfida musicale; egli doveva suonare il flauto e Apollo la lira. Marsia fu vinto e il vittorioso Apollo o uno schiavo sciita lo legò a un pino, lo sgozzò e gli strappò le membra. […] A Celene, se possiamo credere alla tradizione, il suonatore di flauto Marsia appiccato nella sua caverna sentiva anche da morto le armonie, perché si dice che al suono delle sue native melodie frigie la pelle del morto satiro fremeva tutta e sussultava, ma se un suonatore suonava un’aria in onore di Apollo essa restava sorda e inerte.” (Frazer, 2012)
Anzieu analizza nel suddetto testo quello che elenca come ottavo mitema, nel quale afferma che:
“La pelle di Marsia appesa nella grotta di Celene rimane sensibile alla musica del fiume e ai canti dei fedeli; ha dei trasalimenti al suono delle melodie frigie, ma resta sorda e immobile alle arie suonate in onore di Apollo. Tale mitema illustra il fatto che la comunicazione originaria tra il bambino e l’ambiente materno e familiare è uno specchio tattile e sonoro insieme. Comunicare è per prima cosa entrare in risonanza, vibrare in armonia con l’altro.”
Questo mitema illustra come il suono abbia un potere vivificante ma al contempo mortifero, è per tale motivo che spesso verbalizzare e comunicare la propria sofferenza al terapeuta non è sempre un compito facile. Proprio perché dire coincide col reificare ciò che viene detto diventerebbe materia plasmabile, sulla quale poter agire e iniziare a lavorare, pertanto il paziente potrebbe non riuscire a dire della propria sofferenza in quanto percepita come intollerabile e non elaborabile.
I disturbi psicosomatici vengono quindi intesi come il risultato di un fallimento nella comunicazione materna o più in generale familiare che innesca il futuro intrecciarsi tra segno e simbolo della sofferenza del paziente in quanto unica voce che il corpo ha per manifestare un disagio. Analizzare il non-verbale del paziente in seduta implica l’analisi del suo corpo, di come questo ci appare e di cosa questo ci comunica. Spesso il paziente nel suo “non dire” potrebbe rivelare molto più di quanto non farebbe a parole.
Un tentativo di risoluzione a questo genere di incomunicabilità del proprio disagio può essere l’analisi della dimensione onirica del paziente in quanto manifestazione metaforica di desideri, bisogni, sensazioni attraverso simboli, immagini, percezioni che possono essere rielaborate a livello cosciente.
Il sogno per Jung è il principale generatore di simboli. Etimologicamente la parola “simbolo” viene da symballein, “mettere insieme” ossia un processo positivo costruttivo e creatore che dà significato, diversamente dal suo opposto ossia diaballein, da cui deriva anche il termine “diavolo”, che ha invece una funzione di disgiunzione negativa, di frammentazione e perdita dei simboli. L’acme di tale perdita si manifesta ad esempio nella rottura psicotica, nella quale il soggetto vive un’esperienza frammentaria che non sa riconoscere, che non ha referenti di realtà e che sovverte l’ordine naturale delle cose.
Attraverso la rielaborazione cosciente del materiale onirico è possibile risalire a una forma maggiormente “digeribile” di espressione della propria sofferenza che possa aprire nuovi orizzonti e possibilità di lavoro clinico col paziente. Il fine è quello di intercettare i “nodi” dell’esperienza psichica che rendono difficoltosa l’analisi della propria storia e ristabilire una connessione interna tra elementi di esperienza, tra psiche e corpo.
(di Sandra Freni –
Psicologa Clinica e specializzanda presso il Centro Italiano di Psicologia Analitica meridionale (CIPA). Appassionata e studiosa di psicologia complessa e tematiche junghiane. Gli argomenti di cui mi interesso e ho scritto sono principalmente la voce, come media per la “cura delle parole”, e la psicosomatica.)
FINE.
Bibliografia:
Anzieu, D. (2017). L’Io pelle. Milano: Raffaello Cortina.
Bologna, C. (1992). Flatus vocis: metafisica e antropologia della voce (Vol. 103). Bologna: Il Mulino.
Falk, D. (2009) Lingua Madre. Torino: Bollati Boringhieri.
Frazer, J. G. (2012). Il ramo d’oro (Vol. 217). Roma: Newton Compton.